Da un lato, pensare adesso di rifare Dumbo al cinema è abbastanza folle. Sia perché un film in live action tratto da una storia di elefanti e altri animali non ha molto senso. Sia perché il delizioso classico d’animazione Disney durava appena 61 minuti, poco per gli standard di un moderno lungometraggio.
Dall’altro lato, però, pensare adesso di rifare Dumbo è anche geniale. La scarsa durata del film d’animazione presta l’opportunità di spaziare con la fantasia, espandere o proseguire la storia per solleticare l’immaginazione degli spettatori. Oltretutto, il rifacimento in live action dei classici d’animazione, negli ultimi, sta regalando una pioggia d’oro di incassi. E poi c’è Tim Burton, che sulle storie di reietti, diversi, emarginati e ultimi, ci ha costruito la carriera.
Ma qui, onestamente, servirebbe il Tim Burton del 1990, non quello del 2019.
Perché, oltre il materiale d’animazione da cui trae spunto, Dumbo diventa giocoforza un film burtoniano. E questo, non me ne vogliano i suoi ancora tanti estimatori, è croce e delizia del risultato finale.
Il Burton del 2019 non ha l’energia, la visione, l’originalità, o forse semplicemente la voglia, ammettiamolo, di prendere un qualcosa e farlo diventare qualcosa di completamente diverso, di altro e nuovo. Il regista prende tra le mani Dumbo e rifà esattamente la storia che conosciamo, e quando quella trama si esaurisce, la ripiega all’usato sicuro delle sue tematiche, che erano già abusate a fine anni ’90, figuriamoci oggi.
Probabilmente questo nuovo Dumbo farà felici i più piccoli, soprattutto quelli che non conoscono il classico d’animazione, che si affezioneranno subito all’elefantino. Dopotutto, è praticamente impossibile non sorridere di fronte a questa tenera creatura in CGI che fa gli occhi dolci, sorride sotto la proboscide, e non riesce a tirare indietro le orecchie lunghissime. I più piccoli rimarranno ammaliati dai suoi voli, dalle immagini colorate che il film crea.
Ma ai più smaliziati in materia puramente cinematografica, però, sarà difficile digerire l’incapacità di regia e scrittura di donare un’unica anima al film. Pertanto, è impossibile non sottolineare come l’idea di dividere nettamente e drasticamente la storia in due capitoli non giovi al risultato finale in alcun senso.
Dumbo nel 2019 è praticamente due film in uno, nemmeno troppo velatamente. Uno piuttosto classico, uno più tipicamente burtoniano. Vi invito a indovinare quale funziona, prima che io tenti di analizzarlo.
Scherzi a parte, è quasi scontato dire che funziona molto di più la prima parte, quella che organicamente e visivamente segue le orme narrative del classico d’animazione. La prima ora è quasi un remake del film del 1941, con la prospettiva ovviamente passata agli umani, e mantiene intatto quel senso di tenerezza e sentimentalismo leggero che ha fatto la fortuna di quel film. Burton ha la saggezza di evitare la copia carbone, come fece il noiosissimo La Bella e la Bestia di un paio di anni fa. Anzi, il concentrarsi sugli umani ci permette di leggere nuove chiavi di lettura e mettere in parallelo le vicende dell’elefantino a quella dei bambini protagonisti. Una scelta indubbiamente semplice, ma altrettanto indubbiamente efficace.
Poi però, come detto, la storia di Dumbo termina dopo un’ora, e il film, invece di espanderla, decide di chiuderla e cambiare.
Nella seconda parte, quindi, esce fuori tutto il burtonismo più puro e idiosincratico che si possa immaginare. Scenografie gotiche ed espressioniste, scenari che richiamano i b-movies degli anni ’50, un look leggermente più cupo e un’accelerazione sul tema del diverso che non è più solo accettazione, ma lotta per la riaffermazione artistica personale.
Il film, insomma, si abbandona ad essere soltanto un frullatore, privo di qualsiasi forza visiva o innovativa, delle idee di Burton. In taluni punti, con i personaggi ridotti a macchietta (il villain stereotipato di Michael Keaton) o le sottotrame inutili che non vanno da nessuna parte (l’amore per la scienza della bambina protagonista), sembra di assistere ad una parodia dell’estetica e della poetica di Burton fatta dal regista medesimo. Lo stesso Dumbo pare perdersi in una storia che non gli appartiene più e, da protagonista attraverso il quale lo spettatore prova ad immedesimarsi, diventa semplicemente un simpatico animaletto in pericolo che gli umani aiutano.
Oltretutto, fa sorridere la mira che il film sceglie. Criticare le multinazionali che uccidono la creatività dei singoli, nel film di una gigantesca multinazionale che sta comprando tutto il possibile limitando l’originalità, è piuttosto singolare.
Qui, forse, troviamo la fondamentale chiave di lettura. È vero che Burton si è naturalmente invecchiato, e con lui anche i suoi temi che non hanno più la presa e l’innovazione di anni fa. Ma è altrettanto vero, soprattutto, che Burton al lavoro per la Disney finisce inevitabilmente, ancor di più, per edulcorare la propria visione, facendogli perdere emotività e quel pizzico di follia necessario. Il burtonismo è oramai preconfezionato.
La Disney degli ultimi anni è una “formula”, e Burton, che da sovversivo visionario è diventato un marchio stranoto e prevedibile, è perfetto per sfruttare la formula invece di rivoluzionarla. Nessuno, sia chiaro, pretendeva che un film dal titolo Dumbo potesse segnare la rinascita di Burton o la rivoluzione in casa Disney. Ma è altrettanto doveroso constatare lo stato delle cose, con un pizzico di velata amarezza.
Perlomeno, Dumbo rispetta esattamente le aspettative della vigilia: un pastrocchio narrativo che farà felici i bambini e sarà dimenticato nello spazio di qualche settimana. Per tornare a sognare al cinema, cerchiamo qualcosa di persino di stupefacente di un elefante che vola.
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Emanuele D’Aniello
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