Baby Driver, fuga e amore nella macchina di Edgar Wright

baby driver recensione

Disclaimer: questa è una delle rarissime recensione negative di Baby Driver che troverete in giro. E sinceramente, io stesso ancora non me ne capacito.

Da un lato, sarà stata certamente colpa delle eccessive aspettative, avendo approcciato il film come ogni opera di Edgar Wright si rispetti: in religiosa fiducia. Dall’altro lato però, c’è la concreta consapevolezza di una mancata connessione col film. Perché tra i tanti ed evidenti pregi, non sono riuscito a non percepire Baby Driver come un prodotto essenzialmente vuoto. O meglio, in realtà carico di tantissime cose, ma così carico da risultare indigesto ed annullarle a vicenda, rimanendo quindi freddo.

Il principale problema che appunto ha creato una barriera tra me e il film è la sua iper-artificialità. Con la Trilogia del Cornetto Wright ha potuto appoggiarsi alle regole della parodia/omaggio, e reinventarle a suo vantaggio. Col successivo Scott Pilgrim il regista inglese è partito ancora da un riferimento, il fumetto e l’estetica del videogioco, incastrando in quei modelli il suo stile e la sua visione. I risultati, in ambo i casi, sono stati a dir poco stupefacenti. Ora invece, con Baby Driver, Wright si è trovato di fronte un materiale del tutto originale, senza alcun appoggio di partenza. Semmai Wright il genere lo ha dovuto inventare ex novo, creando un incrocio tra la storia romantica ed i film sulle rapine, sempre con in mente la commedia.

Wright insomma, più che regista, più che sceneggiatore, adesso ha indossato i panni del costruttore manovale. Del meccanico, se volete. E qui la macchina si è leggermente ingolfata. Perché a forza di costruire, a forza di pensare allo stile, al montaggio, al sonoro, ad incastrate ogni nota con i movimenti dei personaggi o della macchina da presa, allo spettatore non è rimasto che questo. Il solo, semplice, caro vecchio e fine a sé stesso esercizio di stile.

Non è comunque il caso di sottovalutare i tanti pregi, affatto. Specialmente in un prodotto pensato esclusivamente per il suo pubblico.

Baby Driver è uno dei film più dinamici e avvincenti tra quelli che non debbano spendere montagne di soldi per la realizzazione. Nella forma, come già sottolineato, è fin troppo impeccabile. Se vogliamo essere pignoli è addirittura un musical sulle corse d’auto, e in questo Edgar Wright, oltre a lavorare sul soggetto meglio di qualsiasi film di Fast & Furious sia mai riuscito a fare, si conferma l’autore visivo e assolutamente rivoluzionario che tutti amiamo. Ancora una volta ci ha regalato un film unico e inimitabile.

Perciò, proprio per i tanti pregi, è ancora più doloroso doverne ribadire quanto lo stile stavolta non superi mai il puro godimento visivo o l’orgasmo nerd. Colpa di personaggi stereotipati e di una storia d’amore tanto banale quanto ridicola, che annulla completamente l’efficacia della figura femminile inquadrata solo come valvola di libertà per il protagonista (l’emotività più riuscita e sincera è semmai quella del rapporto tra il ragazzo e il padre adottivo). Non possiamo nemmeno perdonare uno sviluppo narrativo così semplicistico e ricco di cliché. Soprattutto quando culmina, nel finale, nella reiterazione del villain o nell’improvvisa sospensione dell’incredulità, che Wright in realtà ha sempre ben bilanciato.

Forse, proprio vedendo il finale, sarebbe stato meglio a questo punto abbracciare la totale parodia, ancora una volta. Ma ciò avrebbe significato dedicarsi di più alla sceneggiatura, e non alla mera costruzione del sonoro, al missaggio della musica, alla raccolta delle citazioni. Ma al Wright svogliato, forse ancora scottato dall’esperienza troncata con Ant-Man, andava bene solo questo.

Il sottoscritto, che venera il genio nato a Poole, Dorset, voleva semplicemente qualcosina più sincera e meno pensata.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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