Ad Astra, verso l’infinito e (poco) oltre

ad astra

Pirati sulla Luna.

Esatto, in un film come Ad Astra ci sono i pirati spaziali. E non che sia un vero problema, perché anzi quella scena è indubbiamente una delle più tese del film. Ma averla messa nel film è un piccolo sintomo di un problema più grande, dell’indecisione di James Gray su quale tono scegliere per Ad Astra. La stonatura di vedere certe scene d’azione in un film meditativo come questo (e quando lo diventa nella seconda parte, è tutto migliore). La necessità di giustificare l’ambizione di fare un film di fantascienza, farsi dare 100 milioni da uno studio, e chiamare Brad Pitt.

Eppure, gli aspetti commerciali e puramente filosofici in Ad Astra cozzano particolarmente. Non raggiungono la sintesi armoniosa vista in tanti sci-fi, non perché Gray non sia capace o non abbia la visione adatta (pensa a questo film da talmente tanti anni che è impossibile immaginarlo) ma perché si capisce, immediatamente e istintivamente, dove sia il suo cuore.

Il cuore e l’amore di Gray sono tutti negli aspetti più intimi, introspettivi e personali di Ad Astra. Nel fascino di un uomo che molla tutto per andare nello spazio più profondo a seppellire paure che sulla Terra non ha il coraggio di mostrare. Nell’insicurezza e nelle vulnerabilità di un uomo che è stato abbandonato dal padre e cresce, affrontando la propria solitudine, diventando come quel padre per cui prova emozioni contrastanti. Nella potenza di un genere cinematografico che più grande e spettacolare diventa con i mezzi tecnologici odierni, meglio riesce a mostrare e raccontare la fragilità e la piccolezza umana di fronte all’infinito ignoto.

In poche parole, Ad Astra è la summa di tutta l’ambizione e la poetica di James Gray da inizio carriera a oggi. E diventa anche, proprio per questo, la storia di un autore che si scontra con la realtà.

Non arriva fuori tempo massimo Ad Astra, c’è sempre tempo e modo per raccontare simili storie di fantascienza. Anzi, questo è probabilmente il genere migliore per esplorare la solitudine e la debole unicità umana. Eppure, gli stimoli estetici e sensoriali degli spettatori si trovano di fronte qualcosa di non nuovo. I discorsi di Gray, per quanto personali, sono stati già affrontati da altri film di fantascienza. Alcune riflessioni sulla mascolinità e sulla paternità, persino alcune sequenze come visivamente concepite, sono indubbiamente derivative. E Gray non fa nemmeno molto per nasconderlo, se notiamo come la trama e la struttura narrativa, incluso l’utilizzo del voice over, siano prese pienamente da “Cuore di Tenebra” (e pertanto da Apocalypse Now, rimanendo al cinema).

Se aggiungiamo una prima parte vagamente più action, che stona e dimostra altrettanto poca originalità, abbiamo il quadro completo di un film molto interessante, molto affascinante, ma che non fa mai il salto di qualità per suoi manifesti e intrinsechi limiti. Gray ha sicuramente l’ambizione di prova a rielaborare, col suo stile e soprattutto con interiorità personale prima che artistica, strade note. Di provare a equilibrare, tentativo perenne fin dagli albori del cinema, spettacolo a profondità. Ma l’umanismo del racconto non va oltre l’essere interessante. L’esplorazione della solitudine non va oltre interrogativi che già tutti ci poniamo di fronte all’ignoto.

Forse, proprio perché caricato di troppo amore e troppe aspettative, Ad Astra è come quell’alunno bravo ma che potrebbe applicarsi di più. Ha tutto per fare bene, la visione, l’ambizione, il coraggio, la riflessione giusta, ma il mistero è troppo forte per essere superato. Forse perché, in fin dei conti, Ad Astra è un film molto ordinato, molto pensato, molto sudato nel corso del tempo, molto costruito, e per riuscire davvero ad esplorare le domande dell’infinito e farle arrivare con tormento ai cuori di tutti, ci vorrebbe più disordine, più anarchia, più stupore disperato.

 

Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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