Civiltà Perduta, il fascino dell’esplorazione umana

Civiltà Perduta

Sembrerà strano ciò che sto per scrivere. Eppure, onestamente, a me Civiltà Perduta ha ricordato tantissimo Interstellar.

Sono due film completamente diversi sotto ogni punto di vista, chiaramente. Ma vedendo il nuovo film di James Gray, per ambientazione e assonanza estetica, è troppo facile tirar fuori paragoni col cinema di Herzog oppure con Apocalypse Now. Così facile da diventare sbagliato.

La grandezza di Civiltà Perduta è infatti quella di non percorrere strade facili. Non c’è la costruzione dell’incubo emotivo come nel capolavoro di Coppola. Non c’è l’analisi dell’ossessione umana come nei meravigliosi lavori di Herzog. In questa sua nuova pellicola, lineare e limpida narrativamente, Gray ci conduce per mano attraverso la bellezza dell’esplorazione.

Il nostro protagonista Percy Fawcett è sicuramente un personaggio afflitto da ossessione, inutile negarlo. Ma l’ossessione solitamente è un sentimento deleterio fine a sé stesso. Fawcett non è mosso da questo, semmai dall’ambizione e dal fascino di esplorare l’ignoto.

Proprio in questo, paradossalmente, mi ricorda Interstellar. Abbiamo in entrambi i film due protagonisti, due padri, che amano incommensurabilmente la propria famiglia, ma la lasciano per l’irresistibile attrattiva della scoperta, della possibilità di spingersi oltre l’ignoto umano. Ed entrambi, naturalmente in maniera molto diversa, lottano contro il tempo che ogni volta li allontana sempre di più.

Così come premeva a Nolan, ora Gray è interessato a ricordarci l’importanza del ruolo degli essere umani quali esploratori. I loro film ci ricordano le possibilità dell’entrare in contatto con ciò che non conosciamo, e come l’uomo abbia ormai abbandonato tale istinto, troppo impegnato a sfruttare ciò che ha, invece di comprenderlo. Fawcett qui, non a caso, ci è presentato come un uomo colto. Un uomo che, a dispetto del proprio tempo, e dei propri contemporanei, ha a cuore l’importanza dell’elemento umano.

Quasi tutti i film di Gray ci hanno mostrato personaggi che affrontano qualcosa che non conoscono, e come l’ignoto cambi il loro modo di vivere. Dall’esordio Little Odessa fino a The Immigrant, passando anche per i suoi polizieschi urbani, Gray ci ha raccontato storie di “stranieri” rispetto alla società che li circonda. Anche stavolta Fawcett è lo straniero per antonomasia, l’uomo che affronta l’ignoto del nostro pianeta. Un ignoto affrontato non con ossessione allucinogena come per i personaggi di Herzog, ma con umanità, con passione, con uno slancio verso la bellezza e addirittura con inattesa serenità, come nel toccante finale.

Civiltà Perduta mostra la bellezza che possediamo, e come la società la distrugga per paura di ciò che ritiene straniero.

Se proprio vogliamo trovare un difetto al film, forse è il suo volto principale. Non che Charlie Hunnam non sia bravo, anzi, e qui regala la miglior performance della sua (finora breve) carriera. Ma alla sua notevole presenza scenica non abbina la capacità di trasmettere travaglio e tormento, complice anche il suo look sempre eccessivamente perfetto.

Non è comunque un difetto che diventa problema. Civiltà Perduta è un film che regge le sue 2 ore e 20 di durata, e non va mai al di là del proprio seminato o delle proprie possibilità. Con semplicità narrativa ed estetica, punta a ricordarci la bellezza della scoperta, e come anche nella giungla il vero problema rimanga sempre l’uomo. Un peccato, perché il nostro mondo ha così tanto di straordinario da offrirci.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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