“Il cinema è cominciato come una faccenda puramente fenomenologica […]. Al principio non c’era altro che la pura e semplice rappresentazione della realtà”.
Titolo originale: Alice in den in Städten
Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Wim Wenders, Veith von Furstenberg
Cast principale: Rüdiger Vogler, Yella Rottländer, Lisa Kreuzer
Nazione: Germania Ovest
Anno: 1974
Primo capitolo della «trilogia della strada», Alice nelle città rappresenta per Wim Wenders il punto di coagulazione della sua poetica, lo snodo di un percorso in cui passato e presente si sommano al fine di ri-costruire un cinema puro, debitore della tradizione ma da essa intimamente emendato.
Wim Wenders e il Nuovo cinema tedesco
Sebbene il Nuovo cinema tedesco debba considerarsi una corrente disomogenea, la comune «assenza di un Padre» [1] induce registi come Herzog, Fassbinder e Wenders a confrontarsi con modelli stranieri volutamente assunti, punti di riferimento essenziali da opporre a un’identità nazionale rimossa perché colpevolmente segnata, ancora, dallo stigma ‘dei vinti’. L’adozione di stilemi statunitensi accomuna la generazione dei cineasti tedeschi all’esperienza dirompente della Nouvelle Vague, promotrice di una ‘politica degli autori’ che proprio in Wim Wenders trova uno dei più attenti e risoluti rappresentanti.
Wim Wenders tra road-movie e iper modernità
Il rifiuto della sceneggiatura – gabbia precostituita e invalidante – fa della sua opera un campo di lotta tra immediatezza e lavoro di cesello, opposti sapientemente tenuti in equilibrio da una semplicità formale che recupera l’‘evidenza’ del miglior cinema americano. In quest’ottica, Alice nelle città assorbe l’influenza del road–movie e ne riproduce motivi, figure e spirito di fondo. L’attraversamento del territorio ‘classico’, disseminato di riferimenti metanarrativi alla società che di quel cinema è anima e prodotto, rende Wenders un cantore critico della realtà iper connessa, neutralizzata nella sua marca identitaria da una colonizzazione culturale scientemente accettata.
Rivisitazione dei modelli
Il dominio statunitense è da egli interpretato come una norma su cui misurare il mondo per poi rivoltarlo, un modello da assumere e ripensare al fine di liberarsi – anche sul piano formale – da stereotipi vieti nonché decisamente avviati a una sclerotizzazione irredimibile. Lungi dall’investire la sola componente diegetica, l’‘ottica americana’ di Wenders s’insinua nella scrittura dell’opera e ne permea i dettagli, si appunta sui segni esteriori e dissemina di indizi sonori il racconto di un viaggio che non ha inizio né meta concreta.
Viaggio e movimento
Contrariamente allo spirito irridente e libertario di Easy Rider (ma parimenti estraneo all’explotaition di Punto Zero [2]), “Alice nelle città” porta in scena un itinerario che risolve il suo compito nell’atto stesso del movimento, offrendo allo spettatore una prospettiva piana e realistica dello spostamento. Il rifiuto dell’ellissi e delle manipolazioni fa sì che il viaggio di Philip (Rüdiger Vogler) e Alice (Yella Rottländer) si configuri come una riproduzione «spazio-temporale del reale» [3], costellata di tempi morti e imprevisti, sguardi interroganti e silenziose argomentazioni.
Gusto per il dettaglio
La camera di Wim Wenders si sofferma sui volti, ne scava le pieghe e subito vira verso i dettagli, a fotografare la semplice e inosservata quotidianità della vita. L’acqua che defluisce nello scarico nella vasca, il gelato che si scioglie tracimando dalla coppa, la porta dei servizi igienici fissata sul rosso. L’occhio dell’autore, tuttavia, è irrimediabilmente attratto dai simulacri del consumismo, tracce poderose e indelebili della colonizzazione americana, qui sfacciatamente espressa da un paesaggio urbano puntellato di insegne al neon, stazioni di servizio, motel spersonalizzanti.
Corrispondenza autore-personaggio
Il percorso di Philip – prima e dopo Alice – si snoda attraverso non-luoghi [4] che restituiscono il senso di una realtà opaca e ormai intimamente privata di valore storico e relazionale, segnata da una meccanicità dello sguardo che inibisce la possibilità di un’ottica alternativa, capace di disvelare ciò che passa inosservato. In tal senso, tra Philip e Wim Wenders si stabilisce una corrispondenza che emerge dalla ri-considerazione del mito americano e arriva a coinvolgere i meccanismi della percezione, bisognosi di un cambio di prospettiva per attuare la liberazione dal proprio passato.
Viaggio e resa formale
Come il protagonista dell’opera – giornalista impossibilitato a de-scrivere la società statunitense che pur aveva amato – Wim Wenders si trova a fare i conti, finalmente, con l’evidenza di una realtà completamente alienata. La re-visione, allora, si risolve a livello formale mediante un’alternanza ossessiva di luci e ombre, fissità e movimento. Il viaggio – costante tematica del cinema di Wenders – è restituito visivamente tramite il cambiamento d’ambiente, la presenza dei mezzi di trasporto, il transito continuo nelle sale d’attesa di aeroporti e stazioni. Philip, da solo e con Alice, viaggia in auto, si sposta in battello, osserva la città dall’alto riflettendo le suggestive panoramiche aeree del regista [5].
Cesura tra il personaggio e il reale
Macchina da presa e profilmico sono dunque impegnati in un complesso lavoro di spostamento che assume un valore altro e ben più ‘europeo’ rispetto all’originale impostazione del road-movie. Come tutti i personaggi di Wim Wenders, Philip inizia il suo itinerario dopo uno scarto dal reale trasformando così lo stesso in una «trascrizione spaziale del processo di ricerca della propria identità» [6], drammaticamente compromessa dallo shock dell’alienazione.
Un avvio paradigmatico
La sequenza iniziale restituisce in tal senso la piena crisi del protagonista, già avviato a un’operazione di «scarabocchio» su carta a cui tenta di opporre il potere della fotografia. Seduto sotto un pontile, sulla spiaggia deserta, Philip fotografa il mare e poi poggia lo scatto sopra un cumulo di altre ‘polaroid’. Salito in auto, punta la fotocamera verso i soliti, anonimi, particolari del paesaggio urbano e ne restituisce il carattere standardizzato, eternamente riproducibile in ogni luogo.
Wim Wenders e la fotografia
Abbandonato il linguaggio come possibile intercessore tra Io e mondo (del resto l’incomunicabilità è una delle costanti wendersiane) Philip si affida alla fotografia che, in un mondo dominato dai mass media, conserva ancora il suo carattere di unicità. Gli attimi fissati, così come gli oggetti, acquistano allora valore ‘reale’, si presentano quali esattamente sono in virtù dell’attendibilità che il mezzo possiede [7]. Non è un caso, dunque, che le fotografie del protagonista appaiano tutte senz’anima, «così vuote» come dirà Alice dopo averle osservate.
Il personaggio di Alice
L’intervento della bambina è del resto la chiave di volta del film, la sua presenza uno sguardo altro e finalmente rinnovato. Come nota Gianni Amelio, nel film di Wim Wenders non c’è «né rapporto padre-figlio [tipico del modello italiano], né la ribellione [modello francese]» ma il personaggio di Alice serve al regista «per aprire uno sguardo sul mondo meno prevedibile, più aperto» [8]. Ecco allora che la foto da lei scattata a Philip («Per farti vedere come sei») diviene la concretizzazione di una nuova presa di coscienza, l’ottica finalmente differita su un mondo parcellizzato.
Infanzia
Com’è tipico dell’infanzia, Alice non possiede filtri né sovrastrutture, a lei non si può mentire né nascondere nulla. Philip si trova a badarle dopo che la madre – mero elemento ornamentale – l’ha abbandonata in una camera d’albergo, ennesimo luogo non relazionale che si apre alla possibilità di una ricostruzione dei rapporti. Coppia improbabile (il giovane non sarà mai scambiato per il padre Alice, tranne una sola volta, nel bagno di un aeroporto e significativamente alla fine del film) i due attraversano Amsterdam e la Germania alla ricerca della nonna, figura evanescente e poco funzionale all’indagine di Wenders.
Il viaggio come identità
Ciò che preme al regista è mostrare semmai il mutamento in atto, il cambio di prospettiva che investe Philip in maniera dirompente seppur misurata, in ossequio a un cinema che rifiuta lo straordinario, il sovradimensionato. Come per gli altri protagonisti della «trilogia della strada», la vicenda del giornalista non ha un prima né un dopo, si risolve nel movimento lento che è comunque avanzata. Alice, alla fine, troverà la madre e la nonna impedendo così alla storia di di trasformarsi in una storia con, modulo tradizionale e usurato cui Wim Wenders non può che sottrarsi.
Assunzione di uno sguardo altro
La vicinanza con la bambina serve a Philip per riscoprire la dimensione ludica dell’infanzia, per adottare e introiettare uno sguardo finalmente non viziato. Tutto ciò ha per Wenders una conseguenza immediata sul piano della rappresentazione e costituisce una precisa allusione al suo affrancamento dal modello, l’abbandono consapevole e necessario dei vecchi stilemi.
Morte del ‘vecchio’ cinema
Durante l’ultimo viaggio in treno Alice e Philip si affacciano al finestrino perturbando le aspettative, sciolgono le briglie di un passato contratto e si aprono alla possibilità di un avvenire spontaneo, finanche sottratto alla meccanicità dei rapporti. Un momento prima Philip apprende dal giornale della morte di John Ford, ‘maestro’ e padre del cinema americano. Lungi da tentazioni edipiche e nuovi, sterili incasellamenti, il cineasta tedesco intende così rimarcare il suo cambio di rotta, la presa d’atto di una personale identità cinematografica.
Evidenza e rappresentazione
«Molte strade si prospettano per un rinnovamento, e una di queste è, paradossalmente, il ritorno alle origini, all’infanzia del Cinema» [8]. L’intervento sulla percezione di Philip si traduce in riformulazione del linguaggio filmico e approda – attraverso un lavoro di sfrondamento e, per così dire, ‘essiccazione’ – a un cinema puro e dell’evidenza, in cui alla spiegazione si sostituisce l’atto del rappresentare. Alice nelle città è dunque un decisivo atto di liberazione, il compimento – mai definitivo eppure totale – di un percorso di ricerca appropriazione di sé.
Tre motivi per vedere il film
- La vispa e straordinaria Yella Rottländer
- Il ricorso – tipicamente wendersiano – alla musica rock
- I movimenti di camera
Quando vedere il film
Dopo il cortometraggio Alabama 2000 anni luce (1969) e La paura del portiere prima del calcio di rigore (1972).
Note
[1] F. D’Angelo, Wim Wenders, Milano, Il Castoro, 1995, p. 13.
[2] Cfr. Ivi, p. 58.
[3] Ivi, p. 18.
[4] Cfr. M. Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1991.
[5] Cfr. F. D’Angelo, Wim Wenders, cit., p. 54.
[6] L. Quaresima, Wim Wenders. Alice in Deutschland, in “Cinema e Cinema”, 11, aprile-giugno 1977, p. 61.
[7] Cfr. quanto afferma Leonardo Sciascia in Il ritratto fotografico come entelechia, in D. Palazzoli (a cura di), Ignoto a me stesso. La fotografia vista da Leonardo Sciascia. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges, Milano, Bompiani, poi in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio, 1989, p. 153.
[8] R. De Gaetano – B. Roberti, Conversazione con Gianni Amelio, in “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”, 35, Pellegrini Editore.
[9] F. D’Angelo, Wim Wenders, cit., p. 67.
Ginevra Amadio
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