Drive non è un film semplice, o forse non è nemmeno un film.
Drive è pura atmosfera, sensazione, emozione, è un trattato sul cinema del suo regista, il danese Nicolas Winding Refn, uno che film normali non sa proprio farli…e per fortuna. Drive è una scossa di energia, Drive è un silenzio che racchiude diecimila volt di pura umanità, Dive è un bacio che non sai quando è il momento di dare, Drive è quella violenza istintiva animalesca che tutti coviamo ma non lasciamo mai andare, Drive è quella notte che vuoi girare in macchina da solo ad ascoltare musica, Drive è quello sguardo che ti fa innamorare senza aggiungere un solo fiato. Drive è stato spacciato come action, ma non lo è assolutamente. Drive è stato presentato come film adrenalinico da ingannevoli trailer, ma non lo è assolutamente. Drive è invece la più romantica storia d’amore degli ultimi anni, una favola moderna, un western metropolitano. Lo avete capito, questo film è tante cose.
La recensione
Il progetto doveva essere inizialmente un banale prodotto commerciale, e Refn non doveva girarlo. Quando la tipologia di film è cambiata, e il regista danese è stato contattato (da Ryan Gosling stesso, già protagonista designato dalla produzione) Refn comunque non voleva farlo. Poi è bastata una serata in macchina tra il regista e il suo attore, nella notte di Los Angeles, nel silenzio in mezzo al traffico, una canzone alla radio, e la scintilla è scattata: nella testa di Refn il film doveva raccontare la storia di un uomo che passa le notti a guidare solo e ascolta musica.
Drive di fatto è questo: tanta solitudine, silenzi sospesi, tempi dilatati. Tutto ciò è incarnato nel protagonista senza nome, per tutti “ragazzo” o semplicemente il driver, e nella clamorosa interpretazione di Ryan Gosling, che trattiene e assorbe ogni emozione. Lui non parla, semplicemente perché non ne ha bisogno, parla con i fatti, parla soprattutto con lo sguardo. Perché rovinare certi momenti e certe situazioni con le parole, con qualche frase banale o magari fuori posto? Questo il personaggio lo sa, Refn lo sa, Gosling lo sa, e infatti comunica ogni cosa solo con lo sguardo e con espressioni via via sempre più cariche di dolore, con un sorriso o con un semplice movimento delle sopracciglia. I silenzi, quando sono ben fatti, sono molto più potenti di chissà quale effetto speciale. Refn fin dall’inizio della sua carriera lavora sui silenzi, sugli attimi sospesi, nessuno meglio di lui sa lavorare sui momenti sospesi. In questo film riempie con una incredibile carica emotiva i silenzi e i vuoti, che poi vuoti in realtà non sono, come nessun altro saprebbe o potrebbe fare.
Ricordate il western classico, o la trama di un canonico film con l’eroe solitario? In una città qualsiasi arriva al momento giusto un uomo apparentemente senza passato, fa quello che deve fare, aiuta chi deve aiutare, uccide chi merita di essere ucciso, e se ne va, magari al tramonto oppure all’alba, magari verso nuove avventure. Questo è quello che fa il nostro protagonista, rigorosamente senza nome, come il mitico pistolero di Clint Eastwood nei film di Sergio Leone. Drive è una favola moderna in cui il misterioso eroe salva la bella principessa dall’orco cattivo.
Ah già, la principessa. Solo il volto pulito di Carey Mulligan poteva dare forma ad un personaggio simile. Lui parla poco, lei parla ancora meno, si guardano tutto il tempo, respirano, a volte non rispondono alle domande che si scambiano. Non sono due persone apatiche, sono semplicemente due ragazzi che purtroppo nel mondo moderno non esistono più. L’innamoramento qui è tutto fatto di sguardi e sospiri, senza dire una virgola. La loro è la storia più romantica possibile nel cinema moderno, perché non si vede, ma si percepisce. Tutto il cinema di Refn per la verità si percepisce e si respira. Dicevamo appunto che Drive è la perfetta sintesi di tutta la sua poetica, ma forse è errato. Basta solo l’ormai immortale “scena nell’ascensore” per rappresentare tutto il suo cinema. Una sola scena. L’eroe, la principessa, e l’orco cattivo. L’ascensore che diventa un palcoscenico, le luci si abbassano, e il bacio più bello degli ultimi anni si materializza. Lì, proprio in presenza dell’orco cattivo. La luce torna, e l’eroe solitario esplode nel più gargantuesco atto di violenza immaginabile, senza armi, sotto gli occhi della sua bella. Poi, paura per uno e rimorso per l’altro. Tutto senza una parola, senza una sillaba, senza un fiato (e alternare così bene i registri in una singola scena vuol dire essere un grande regista) perché questo è il cinema di Refn, lirismo e poesia altissima si alternano ad esplosioni di violenza incontrollata. Quella violenza così efferata ma mai gratuita, mai giocosa, sempre costretta e per questo sempre tremendamente dolorosa, e dopo ogni scia di sangue c’è sempre il tempo per il pensiero, per la conseguenza, per il rimorso. E non a caso dolorosi sono i personaggi di Bernie e Shannon, in tutto e per tutto opposti al driver: parlano tanto, gesticolano tanto, sbagliano tanto. Albert Brooks solo in un film simile poteva essere credibile come mafioso, inquietante come mai in carriera. Bryan Cranston, che probabilmente interpreta la figura più tragica della storia, è fenomenale nelle poche scene in cui lo vediamo, è lì per fare da spalla ma alla fine di ogni sua battuta lascia la scena da grande attore.
3 buoni motivi per vedere il film:
– Il cast. Non c’è un attore fuori posto o fuori ruolo, soprattutto è ricco di caratteristi con esperienza tv che, pur con poche scene, hanno la possibilità di splendere. E poi c’è Oscar Isaac in uno dei suoi primi ruoli prima di diventare la star che è adesso: si può sempre dire “ecco dove l’avevo visto la prima volta!”
Quando vedere il film?
– Rigorosamente la sera, senza alcuna luce del giorno che possa infastidire. Da soli o in coppia, ma non è un film da gruppo di amici che fanno confusione.
Emanuele D’Aniello
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