Quando ho letto Il piacere dell’onestà ho pensato ai film di Bergman e a quelli di Dreyer che vedevo da ragazzina coi piccoli inferni familiari… In quei film c’era sempre in sottofondo la lotta del Male contro il Bene che sembra perdere, invece poi talvolta… (Liliana Cavani)
Nel salotto di una stimata famiglia borghese, due “gentiluomini”, «è più facile essere eroe che gentiluomo», il marchese Fabio Colli (Leandro Amato) e Angelo Baldovino (Geppy Gleijeses), grazie alla fattiva collaborazione di Maurizio Setti (Maximilian Nisi), vecchio compagno di scuola di Baldovino, stringono un sordido accordo per cancellare, o almeno tentare di camuffare, l’ignominia di un amore clandestino, il peso di una nascita imprevista.
Un perfetto sconosciuto diventa così, per il sottile “giuoco delle parti,” l’onesto marito di «una donna che non può essere sua moglie» e «l’onesto padre di un nascituro che non può essere suo figlio».
Ma l’onestà, come afferma un serafico Baldovino, dopo aver lentamente insellato gli occhiali sul naso, dovrà necessariamente essere duplice, anzi generale.
«Dovrà essere onesto anche lei, signor marchese, davanti a me. Per forza! Onesto io, onesti tutti. Per forza!»
Questa, in sintesi, la trama della commedia di Luigi Pirandello Il piacere dell’onestà, dal 3 aprile scorso in scena al teatro Quirino di Roma fino al prossimo 22 aprile per la regia di Liliana Cavani.
Le apparenze, dunque, sono salve. La rispettabilità totalmente salvaguardata, così come la possibilità concreta che il marchese possa continuare a frequentare la sua amante, Agata (Vanessa Gravina), nonostante sia sposato. È più facile, come sostiene Baldovino, che una donna sposata abbia un amante, piuttosto che una signorina.
Sulla scacchiera della studiata finzione tutte le pedine sembrano occupare la loro casella, in attesa della prima, mossa fatale.
Ma la partita non prosegue come troppo semplicisticamente ipotizzato. La realtà si fa ipocritamente beffa della simulazione e la messinscena salta al primo improvvido moto, proiettandosi verso un finale tutto da interpretare. Un finale che, nel crudo realismo pirandelliano, «non conforta e non lenisce» come suggerisce Geppy Gleijeses.
L’opera fu scritta nel 1917, l’anno di Caporetto, l’anno in cui l’Italia fu vicina all’orlo dell’abisso. Il piacere dell’onestà è ispirata alla novella Tirocinio del 1905, fu rappresentata per la prima volta il 27 novembre 1917 al Teatro Carignano di Torino, protagonisti due attori straordinari: Ruggero Ruggeri e Vera Vergani.
A riproporre a distanza di più di cento anni la commedia di colui che Gramsci definì “l’ardito del teatro” italiano, è Liliana Cavani.
La regista mette in scena il racconto di una famiglia che desidera essere maledettamente normale, nonostante sia schiacciata dalle convenzioni, dai pregiudizi, dalle ferree regole che la società impone. Per farlo non disdegna di ricorrere all’inganno di un matrimonio bianco, (stratagemma utilizzato dal premio Nobel già in altre commedie quali Pensaci Giacomino e Ma non è una cosa seria), in cui un falso marito sposerà per finta una donna. Sposa, però, sul serio l’onestà. È l’ultima sponda per riscattare una vita mediocre, nella speranza di provare, prima o poi, l’intimo «piacere dei Santi negli affreschi delle chiese».
Tutta la commedia ruota inevitabilmente intorno al concetto dell’onestà. Una coperta troppo corta, tirata e accomodata per l’esigenza di tutti che, molto spesso, la società dei “cosiddetti ben pensanti” tiene alla larga, temendo la sua inusitata forza, la sua spropositata modernità, svuotandola di ogni reale significato.
Bravissimi tutti gli attori diretti dalla Cavani.
A lei il merito di riproporre, oltre al realismo magico della commedia, anche quella sottile ironia pirandelliana. Questa tocca l’acme nella splendida battuta che Angelo Baldovino fa a proposito della figura della suocera Maddalena (Tatiana Winteler), «una costruzione irriducibile» che sarebbe meglio che non ci fosse.
Menzione di merito spetta per Geppy Gleijeses. Questo, ogni volta che incontra un testo pirandelliano, tocca vette di teatralità supreme, come già in Liolà, Il giuoco delle parti o L’uomo, la bestia e la virtù.
Qui, nel Piacere dell’Onestà, esalta la figura di Baldovino. Ripropone appieno la mostruosità di una «maschera grottesca che alla fine diventa un volto rigato dalle lacrime» come definì il suo personaggio Luigi Pirandello.

Andare a teatro a vedere Pirandello equivale sempre a mettersi, come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila, davanti allo specchio e scoprire dolorosamente tutte le nostre infinite, ipocrite finzioni, celate da pesanti trucchi per nascondere una sola, inevitabile verità che, come scrisse, Hannah Arendt «non è né data né rivelata alla mente umana, ma piuttosto da essa prodotta.»
Maurizio Carvigno