“Non si lasciano sole le grandi stelle! E’ per questo che sono stelle”
Così affermava Gloria Swanson, nei panni della diva Norma Desmond, nel film Viale del Tramonto di Billy Wilder. Le ‘star’ infatti brillano sempre e accendono il cammino di chi le guarda, come un naufrago nel mare o un disperso nei boschi. Solo loro ci indicano la giusta strada, sia che stiano per esplodere o che siano nel pieno del loro splendore.
Tante dive hanno illuminato la via di molte persone, sia tramite la loro arte sia attraverso la loro vita. Tra queste c’era il Passerotto francese, Edith Piaf. Lei, che fece tornare rosa la vita di molti dopo la guerra. Lei che non rimpiangeva niente, neanche la sua vicinanza ai ghettizzati, alle donne di strada (qualunque esse fossero), ai dimenticati, ai folli. A Edith Piaf, Melania Giglio rende omaggio nello spettacolo, da lei scritto e interpretato, Edith Piaf – L’usignolo non canta più, con la regia di Daniele Salvo, in scena al Teatro della Cometa fino al 3 febbraio.
Siamo nel 1960. Edith si è ritirata dalle scene. Il fantasma di Marcel Cerdan la ossessiona, oltre alla dipendenza dall’alcool e dai farmaci per combattere una dolorosa e evidente artrite. La sua fiamma si è spenta. La sua gioia di vivere c’è più: come poter cantare ‘La vie en rose‘ se non la si vede più?
Alcuni però hanno ancora bisogno di lei, della sua voce, della sua energia. Come Bruno Coquatrix, direttore artistico dell’Olympia, considerato il ‘tempio sacro’ della musica parigina, che va a bussare alla sua porta per farla cantare. È qui che due amici, colleghi, anime irrequiete parlano, ricordano, litigano e cantano. Riuscirà Coquatrix a far uscire dal nido il Passerotto di Francia?
Lo Spettacolo è veramente degno di questo nome.
Escludendo il fatto che la biografia di una cantante come la Piaf è di per sé uno show, chiunque non conoscesse niente dell’artista riuscirebbe qui a capire tutto di lei e del suo mondo in un’ora. In un solo giorno, in un salotto Bruno Coquatrix (interpretato da Martino Duane) e Edith Piaf (Melania Giglio) si confrontano a un ritmo degno di un battito cardiaco, a volte lento e tranquillo, per poi diventare accelerato e forte. La scenografia è elegante e semplice, ricca nei minimi particolari. Ogni cosa ha un suo perché, ogni elemento inserito per un motivo, un richiamo. Si pensi al telo che ricopre tutto all’inizio, come la nebbia della malinconia; e che con soffio viene tolto, ridando colore alla scena. Oppure la…casualità dell’abbigliamento rosa (come quella vita cantata) della protagonista.
Lo spettacolo però è lei, Melania Giglio. Parliamo dell’autrice.
Il testo racconta tutta la vita di Edith Piaf, con il rispetto di chi l’ha ammirata e la minuziosità di chi vuol raccontare una storia vera, vissuta, autentica. Una biografia quasi. Ci sono parti romanzate? Non ha importanza. Alcune persone hanno conosciuto la cantante francese solo nel 2007 con il film ‘La vie en rose‘. Non ci viene descritto il tutto però con distanza, ma come solo un testo teatrale sa fare. Edith infatti nega fino all’ultimo quanto gli manchi Marcel, così come quale fosse la vera essenza della sua amicizia con la Berteaut (chiamata amichevolmente Momone). Sarà Coquatrix a ricordare insieme a lei alcune personalità, come Yves Montand e Leplée. Un testo ricco di emozioni, ricordi, rabbia e malinconia.
Parliamo della cantante.
Edith Piaf…No dico: Edith Piaf. Una delle voci divine francesi. Il paragone è notevole! Melania Giglio invece riesce nell’intento. Forse è riduttivo dire ‘riesce’. Infatti per molti, anche quando interpretano grandi personalità e ne gestiscono la voce, durante il canto le cose cambiano. Per lei no. Eseguendo brani che si associano subito alla voce della Piaf, Melania Giglio ci accoglie con ‘La vie en rose‘, ci commuove con ‘L’accordeoniste‘, ci mostra abilità con ‘Bravo pour le clown‘ e ci dà speranza con l’eterna ‘Non, je ne regrette rien‘. Tutto con un buon francese anche.
Parliamo infine dell’Attrice.
Lo studio alle spalle si vede. La complicità già collaudata con Martino Duane (anche lui perfetto nella parte, purtroppo un po’ da contorno rispetto a lei) e con Daniele Salvo anche. Ben sapendo tutto ciò, ci stupisce. Già dalla sua entrata. Gobba, lenta, sofferente. Il capriccio della viziata, dell’ape regina abituata ad avere solo uomini intorno. Il grugnito onnipresente sul suo volto. Aiutata anche (va detto) da un buon trucco e parrucco, la prima impressione arriva.
Si fa caso poi a un dettaglio, anche se non è poi così piccolo poiché era l’elemento che distingueva il canto del Passerotto: l’uso delle mani.
Si vede quanto, nella sua Piaf, Melania Giglio abbia dato importanza ai suoi arti superiori. Sono sempre rannicchiate, come davvero distrutte da quell’artrite che ossessionava la cantante francese. Anche durante le canzoni, le due donne si somigliano molto. Da applauso il cambio di atteggiamento, dopo lo sfogo di Coquatrix, dove lei ‘ammette’ di essere stata un po’ infantile. Autoironica ma permalosa, incapace di accettarsi per come è diventata, dallo spirito un po’ cameratesco: il corpo, le gambe, la schiena e, soprattutto le mani ci mostrano tutto questo. Per non parlare delle espressioni del viso ma quelle con, Melania Giglio, sono praticamente scontate.
Ritmo, storia, interpreti, testo, un tocco un po’ retrò, senza esagerazioni o effetti speciali.
5 stelle su 5.
Francesco Fario