Per un pugno di libri, il programma culturale di Rai Tre arrivato alla sua diciannovesima edizione, è una parentesi di respiro nel panorama televisivo odierno.
Motivo ben fondato per pagare il canone – come piace tanto dire oggi, oasi incontaminata di una cultura giocosa che resiste all’erosione incrociata dell’intrattenimento di massa e dell’elitarismo mascherato da divulgazione. Per un pugno di libri è un baluardo da salvaguardare, ma non certo perché invita banalmente a leggere.
Pospongo di proposito l’avverbio al verbo giacché il luogo comune – tanto duro a morire – che basti procacciarsi un testo, qualsiasi testo, per essere dei buoni lettori, è qui scavalcato con giocosa serietà.
Ci sono libri e libri, e l’intercalare del “purché si legga” ha troppo a lungo rischiato di impigrire menti assuefatte da quel supermaket del libro che si apre, molto spesso, sulle reti principali.
Testi di Vip scritti in collaborazione con varie tipologie di giornalisti, (auto)biografie di calciatori, autori da teenager che pontificano su media vecchi e nuovi alla spasmodica ricerca di una fetta di pubblico da accaparrarsi.
Per un pugno di libri è l’anti-sponsor per eccellenza, perché contrasta attraverso la stessa strutturazione del suo format questo tipo di cultura all’ingrosso.
Sin dalla prima edizione con Patrizio Roversi la centralità del testo è stata pensata e realizzata con un occhio al fruitore e l’altro alla cultura, mediante uno sguardo volutamente finalizzato all’intreccio delle due componenti. La lettura che promuove il programma non è scolastica né enciclopedica, a dispetto della presenza in scena di due classi superiori che si contendono l’audace premio di ricchissimi libri.
La stessa scelta della formula gioco, così diversa e unica per parlare di cultura in tv, giova a contrastare l’“effetto vetrina” dei tanti talk o strisce quotidiane che presentano libri tra una battuta e uno scontro. Tra una risata e un balletto.
Come fossero accessori da abbellimento o riempitivi di tempo morto. E non tragga in inganno il garbato momento dei consigli del professor Piero Dorfles, che dispensa pillole di novità senza prestarsi ad essere ingranaggio (in)consapevole del marketing editoriale.
È la sua genuina competenza – mai ostentata né rimarcata – a rappresentare il vero punto di forza del programma. Il collante resistente e perdurante capace di tenere insieme pubblico e trasmissione. In anni di tv avanzata, ripensata, a volte semplicemente invecchiata con lifting di facciata.
Squadra vincente non si cambia e difatti Dorfles è il capitano indiscusso di Per un pugno di libri dal 1997.
I conduttori vanno, ma lui e il suo undestatement restano. Patrizio Roversi, Neri Marcorè – il più amato, il mai dimenticato – , Veronica Pivetti e ora Geppi Cucciari. Tutti apprezzati coprotagonisti di uno spettacolo che senza Dorfles perderebbe quella componente educativa che dona agli spettatori un senso di tradizione che sembrava perduta.
Al conduttore di turno tocca, d’altro canto, proprio il compito di controbilanciare tale parte, destreggiandosi tra gag intelligenti e motti arguti, in uno spirito dei tempi che ha visto la trasmissione rinnovarsi a dispetto della sua apparente conservatività. Che è tale solo nei temi, nelle atmosfere e nel meccanismo del gioco – il quale pure si è fatto più smart, in ossequio alle nuove generazioni.
Certi cavalli di battaglia però restano, e tirano fuori quanto di più genuino e teneramente divertente alberga nell’animo dei ragazzi. Dipinti dai media come perennemente annoiati, sdraiati, social-lobotomizzati. Invece quando li si vede gareggiare è una delizia: si affannano, suggeriscono titoli all’amico, con soddisfazione tracciano collegamenti immaginari tra fatti e cose letterarie.
Nel desiderio pulito e ingenuo di regalare alla propria classe un punto in più. Nella consapevolezza ancora acerba che è proprio così che si dovrebbe fare da grandi – pensare al singolo come parte di una collettività.

Ed è il gioco stesso a permettere questo, facendo sì che ogni barriera di reticenza venga spezzata via. Colmando per un breve lasso di tempo il divario costruito – e introiettato – tra adulti che sanno e giovani che non sanno di sapere. L’umanità di Dorfles spinge i ragazzi in gara a mollare gli ormeggi, il brio di Geppi (oggi) li fa sentire accolti.
Non basta infatti invitare giovani tra il pubblico per fare un programma di cultura che ad essi – si presuppone – desideri parlare. E non serve nemmeno chiamarli a presenziare, ogni tanto, come quota under trenta da sfoggiare in un parterre già predisposto.
Il coinvolgimento attivo e ludico non è sintomo di svalutazione ma di elasticità della cultura. Che nella sua accezione letteraria è un campo aperto, contaminato, aperto all’inclusione di generi, stili, e a volte persino attori.
La televisione, nel suo fare servizio pubblico, ha riconosciuto più di vent’anni fa il potenziale di tale strada. L’ha lastricata piano piano, in sordina, talvolta con scelte poco felici (la messa in onda il sabato in luogo della domenica) ma sempre con la tacita convinzione che da un progetto piccolo, e necessario, può nascere qualcosa di buono. Senza stravolgimenti eclatanti, senza proclami pompati. Senza réclame che è l’anima del commercio. Perché la buona televisione, inspiegabilmente, ma inesorabilmente, non ha bisogno di fare rumore.
Ginevra Amadio