“Il Dito di Dio”: intervista al sound designer Michele Boreggi

Michele Boreggi intervista Il Dito di Dio

Michele Boreggi è il fantastico professionista che ha composto la sigla e alcune delle musiche più belle del podcast, oltre all’immenso lavoro di sound design che ha permesso a tanti di voi di “vivere” l’esperienza a bordo della nave. Voglio ringraziarlo pubblicamente, perché ha preso il nostro lavoro e lo ha ricamato con un’attenzione e una cura uniche, realizzando un lavoro di sartoria sonora di grande qualità. Ha lavorato notti intere senza sosta, trattando con amore ogni singola scena, ogni voce, ogni storia, ogni cambio di passo.
Collaborare con un artista come lui è stato un grandissimo regalo.

Pablo Trincia

Ascoltando il podcast Il Dito di Dio mi sono emozionata come non succedeva da tanto tempo. Puntata dopo puntata mi sono ritrovata su quella nave, sulla Concordia e ho sentito sofferenza, dolore, angoscia. In alcuni momenti ho persino avuto la strana sensazione di avere l’acqua dentro le orecchie, percepivo i suoni ovattati come se fossi sott’acqua. Mi sono sentita emotivamente coinvolta a trecentosessanta gradi: a livello narrativo grazie al racconto cucito ad arte da Pablo Trincia e a livello sensoriale grazie al lavoro di Guido Bertolotti – che si è occupato del mix del podcast, una fase molto importante perché valorizza la voce narrante, gli elementi musicali e i suoni – e Michele Boreggi, il sound designer.

Ho deciso quindi di intervistare per i lettori di CulturaMente proprio Michele Boreggi, un ragazzo loquace seppur timido, umile e divertente; un professionista serio e riflessivo, che nel suo lavoro non lascia niente al caso.

Michele ha capito molto presto che nella sua vita avrebbe svolto una professione connessa con il suono. Diplomato in Fonia e Acustica presso l’ Università della Musica di Roma, ha lavorato come tecnico audio per programmi televisivi delle reti Mtv e La7, poi come fonico live nei concerti e nella post-produzione audio di film, spot, audiolibri. Ha anche prodotto e diretto Shotgun Boogie – New Orleans una serie video documentaristica girata interamente a New Orleans che affronta, attraverso la prospettiva dei musicisti che vivono la città, il tema del Post-Katrina.

Michele vive in una “capsula spazio-temporale”, il suo studio, ed è sempre molto impegnato sui suoi progetti. Riusciamo finalmente a sentirci telefonicamente un venerdì, quando ha ultimato In Memoriam l’ultimo episodio de Il Dito di Dio.

L’Intervista

1Michele tu sei un sound designer, un progettista del suono ma nella pratica, nella vita di tutti i giorni che cosa significa?

Diciamo che sul significato del ruolo c’è un po’ di confusione nel senso che in verità il sound designer è colui che cura il suono a 360° quindi tutti gli elementi e gli strumenti che si hanno a disposizione per il progetto artistico produttivo, che sia un podcast, che sia un documentario, che sia un film. Avere una visione globale del prodotto in questione è fondamentale. Si cerca quindi di amalgamare e far interagire tutti gli elementi del suono siano essi le voci degli attori, un voice over, una musica o i sound effects. Spesso si pensa che il sound designer si limita a creare solo effetti sonori concreti (come possono essere gli uccellini in campagna) o astratti.

2Se tu devi utilizzare un suono reale lo crei?

Sì allora diciamo che il mio ruolo fondamentalmente è un 50% tecnico e 50% creativo. I suoni o vengono registrati oppure selezionati all’interno di una banca dati sonora.  Una persona che fa questo di mestiere chiaramente negli anni si coltiva e costruisce man mano la propria libreria sonora. Il sound designer spesso e volentieri va in giro con un registratore. Io per esempio ce l’ho sempre nella mia borsa e sono proprio attratto dai rumorini, i rumori più grandi, il vociare, tutti i suoni di una città. Normalmente si fa poco caso ai suoni a causa dell’inquinamento acustico che c’è nelle vita che viviamo. 

All’interno di un prodotto come un podcast, nel caso specifico Il dito di Dio, c’è stata una scelta stilistica. Spesso il sound design è descrittivo, a volte anche troppo didascalico (vai in campagna e ci sono gli uccellini per fare un esempio). Io invece cerco lo strumento che funziona di più, mi immedesimo nella situazione narrata e cerco di trovare un suono che faccia parte di quell’ambiente, che lo ricordi senza essere quello più connotativo in assoluto. 

Questo aiuta a rendere il commento sonoro un po’ meno didascalico e allo stesso tempo arricchisce la narrazione di dettagli. 

3Il podcast è un medium basato su unico senso. Che tipo di lavoro c’è dietro a un prodotto che sfrutta l’udito in modo così totalizzante?

Una volta che si dà sfogo alla parte creativa quindi sia a quella musicale che a quella del sound design poi l’obiettivo è sempre quello di rendere la narrazione la parte centrale e portante del racconto. Io devo essere sicuro che in qualche modo il commento sonoro non sia mai ingombrante, ma deve essere al servizio della narrazione. La mia premura è quella di cercare di non esagerare mai e contemporaneamente di non lasciare mai troppo sola la voce, a meno che la solitudine della voce narrante non sia un elemento necessario.

4Come è nato il sound design de Il Dito di Dio

Per Il Dito di Dio il lavoro che ho fatto, anche durante la giornata mentre facevo altro, era assegnare in qualche modo un colore al mondo raccontato, senza pensare necessariamente a che tipo di strumenti avrei utilizzato o a che tipo di suoni avrei realizzato. Il mio scopo era capire che tipo di pasta, di atmosfere avrei voluto dare. Si è trattato di un lavoro con tempi molto stretti e, quando si sta all’interno di dinamiche produttive così, bisogna anche fare i conti con il tempo. La sintesi è un grandissimo dono.

Inoltre, quando ho saputo che avrei curato la parte sonora di questo progetto, una parte di me è stata anche un po’ timorosa. Si tratta del racconto di una tragedia e bisogna sempre stare attenti a non urtare certe sensibilità.

Devo dire che in questo Pablo Trincia e Debora Campanella sono stati bravissimi. Non c’è nel podcast pornografia del dolore. E questa cosa mi ha aiutato. Il mio primo obiettivo è stato quello di ricercare da un lato l’oscurità, dall’altro l’empatia per la sofferenza e infine l’amore, perché è una storia densa di amore

Una volta capita questa cosa qui, ho cominciato a ragionare su quelli che potevano essere proprio i singoli colori della colonna sonora e quindi anche a cercare determinati strumenti tra quelli che avevo a disposizione.

Per esempio, a poco a poco, ho capito che il piano Rhodes per me era uno strumento che poteva essere assolutamente un elemento di questa serie, come d’altronde potevano esserlo anche le chitarre elettriche suonate in maniera pacata. Ho cercato di far uscire l’emotività in primis da questi due strumenti. Poi ho utilizzato acqua e mare in tutte le forme possibili, differenziando i suoni a seconda che la nave fosse in movimento, che fosse ferma o che stesse sprofondando. Ho scelto di utilizzare suoni evocativi, perché i ricordi non sono mai nitidi al 100%. 

In tutte le parti in cui si parla di persone scomparse ho poi cercato di camminare in punta di piedi, per una forma di profondo rispetto. Facendo questa professione, lavorando da tanti anni non solo nel mondo del podcast ma anche del documentario, è chiaro che a volte sei come il medico che opera alla millesima volta e sviluppi un cinismo di sopravvivenza. Ma in questa storia no… Mi sono ritrovato anche io in alcuni episodi, come nell’ultimo per esempio, ad avere gli occhi lucidi mentre ero magari con una chitarra in mano.

In generale comunque ho avuto veramente massima libertà e fiducia da parte sia di Pablo Trincia sia di Debora Campanella.

5Che podcast ascolti tu?

Questa è una nota dolente, devo dire la verità.  Da quando faccio podcast ascolto pochissimo. Considera che ho curato tutto il montaggio de La città dei vivi. Finito quello, il giorno dopo, ero già su Il Dito di Dio e sono state tutte e due produzioni molto importanti e impegnative in termini di tempo.

E poi c’è anche un altro fattore. Per esempio ci sono anche altre serie uscite rispetto al tema della Costa Concordia e ho voluto proprio non ascoltare nulla di proposito per non farmi influenzare.

Quindi soprattutto se sono in fase creativa non ascolto. Lavorare per un progetto podcast è bellissimo ma allo stesso tempo, per i tempi di produzione ristretti, in brevissimo tempo devi entrare in quel mondo, devi capirlo a fondo, devi cercare di capire con che approccio è stato narrato, a quale target è rivolto. Poi devi trovare un sunto sonoro. Non è un lavoro automatico, si ha bisogno di metabolizzare. Devi anche fare i conti con te stesso, il tuo stile, i tuoi strumenti e la tua personalità. Il Dito di Dio è anche il riflesso di quello che io ho ricevuto da questo racconto.

6Quando eri piccolo cosa saresti voluto diventare da grande?

Da piccolo mamma mi chiedeva che cosa volevo fare. Non mi chiedere perché però ogni volta che andavamo a scuola sulla strada per le elementari c’era un semaforo dove c’era questo uomo che lavava i vetri. Era molto simpatico e noi ogni mattina passavamo lì. Quando la mamma mi chiedeva “tu che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “il lavavetri” perché lui mi stava molto simpatico. Per anni ho voluto fare il lavavetri. 

7Che progetti hai per il futuro?

Adesso sto in una fase di collaborazione densa con Chora Media, quindi sicuramente ci saranno nuovi progetti. 

È un mondo super nuovo che sta investendo in una direzione molto innovativa e che sta cambiando anche il panorama del podcast italiano.  Credo che la mia ambizione sia quella di cercare di continuare su questo ambito: muovermi tra le musiche e il suono in generale mettendo me stesso sempre al servizio di storie potenti raccontate con questo formato, perché secondo me il podcast è uno strumento necessario.

Ci obbliga a utilizzare la nostra immaginazione quasi come quando si legge un libro. Negli ultimi anni siamo tutti bombardati da social, cellulare, serie tv in cui viene servito il pranzo pronto.  Avere produzioni sonore che durano anche un’ora e sapere che dall’altra parte c’è una persona che mantiene alta l’attenzione è molto incoraggiante. 

C’è ancora tantissima strada da fare, ci sono mille storie che devono essere raccontate e mille modi per raccontarle. Non abbiamo ancora ascoltato nulla e il futuro dipenderà sia da noi che stiamo dietro le quinte sia dal pubblico. Si tratta di un rapporto reciproco di sviluppo, costruzione e creazione.

Valeria de Bari

Sceneggiatrice, chitarrista, poetessa, pittrice: quello che sogno di diventare da grande. Ops ... sono già grande. Amo la musica (soprattutto il punk, il rock e le loro derivazioni), le immagini-movimento e l'arte del racconto (o come si dice oggi lo "story telling"). La mia vocazione è la curiosità. That's all folks

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