Ieri sera, dopo quattro puntate, si è concluso lo sceneggiato televisivo della Rai “Di padre in figlia” diretto da Riccardo Milani, da un’idea di Cristina Comencini.
Attori di diverse generazioni ci spingono nella storia di una famiglia di Bassano del Grappa, i Franza, dagli anni ’50 ai alla metà degli ’80. Una storia che parla di padri padroni, mogli sottomesse, figlie emancipate, ognuna a modo loro, matrimoni combinati e non voluti, altri fatti senza pensare. Amanti senza scelte, desideri di libertà e voglia di uscire e mettersi a gridare. Una storia che vede gli anni ’60 e ne approfitta ma non nel modo giusto. Alcuni si salvano, altri cedono. Alcuni si lasciano corrompere, altri non si muovono di un passo: una storia italiana a tutti gli effetti.
Sceneggiato che è passato un po’ in sordina, ma che a mio avviso non senza motivo.
Apriamo una parentesi: io ho un rancore personale nei confronti dell’ideatrice. Vi parlo perciò con la più fervida franchezza.
“Di padre in figlia” è risultato un ottimo sceneggiato.
Ho sperato fino all’ultimo che peccasse in qualcosa, ma ahimè non ho trovato difetti. Gli attori sono bravi, le ambientazioni realistiche e le ricostruzioni ben fatte.
Alessio Boni è un perfetto padre padrone, mentre Stefania Rocca con i suoi silenzi sordidi e la sua speranza sopita ben s’inserisce nel contesto di allora. Cristiana Capotondi non c’è molto. La colpa è forse da attribuirsi al personaggio troppo calmo, ma viene coperta dalle “sorelle” Matilde Gioli e Demetra Bellina.
Lo sceneggiato, come il titolo ci spiega, ci parla del difficile ruolo che avevano le donne all’epoca e che strada hanno fatto per conquistare la parità dei diritti. Non si parla di manifestazioni o di leggi. Qui si entra nel quotidiano. Realtà vissute proabilmente, come quella di una moglie e di un’ex amante del marito che diventano migliri amiche.
La figura di Giovanni, padre assente e concentrato sull’unico figlio maschio, ma non (come dirà il personaggio di Sofia) “su cosa voleva, ma su come lui voleva che il figlio fosse”, è così ben descritto e così ben interpretato che, da uomo, quasi si prova vergogna. Se ne prova ancora di più andando sui social. Commenti e like sono per il 95% di donne: uomini pochi e, alcuni dei quali, criticano.
La domanda spaventa: siamo ancora a questi livelli? Il modello Giovanni è ancora così attuale?
Non è difficile vedere un uomo che per farsi rispettare alza le mani, inizia a bere o rimane indeciso su quale donna scegliere: atteggiamenti non così lontani dall’attualità. La critica c’è ed è forte, ma, in quanto uomini, bisogna accettarla.
Qualcuno, in un quotidiano, lo ha definito come un La meglio gioventù al femminile. Altro errore. Si continua a paragonarlo ad un altro lavoro: è solo arrivato prima.
Un bravo critico riconosce un buon lavoro anche se chi lo produce non gli piace. L’idea passa e gli attori sono capaci. Come sceneggiato risulta migliore di molti altri, poiché manda un messaggio e narra una parte della storia della nostra nazione. Quella storia che molte mamme hanno scordato, che molte nonne non hanno sentito e che molti figli ignorano e certo non sono gli anni ’60.
Io non sono tra questi. Applausi per “Di padre in figlia“.
Una cosa è certa: un sequel rovinerebbe tutto. Lo sceneggiato perderebbe molto. In tal caso, come dice un professore nel film di Giordana citato poco fa, sarò “sempre pronto a farlo a pezzi“.
Francesco Fario