13 è la serie tv del momento. Tutti ne parlano, molti la vietano. Fatto sta che la storia della liceale suicida, presentata come serie originale Neftlix, ha molto da dire.
Partiamo dal presupposto che la serie merita. Merita sotto tanti punti di vista, dalla caratterizzazione dei personaggi allo sviluppo della trama. Ma il suicidio in pompa magna di Hannah Baker altro non è che l’ennesima manifestazione della società dell’apparenza. E forse è proprio questo a destare timori.
Il titolo non è uno spolier ovviamente. Appena farete partire il primo episodio di 13 (Reasons Why) apprenderete che la giovane Hannah Baker è morta. Il bello sarà scoprire le sue 13 ragioni attraverso le audio cassette che ha lasciato in eredità ai diretti interessati, i suoi compagni di scuola.
I genitori pensano si tratti di bullismo, o meglio di cyberbullismo. Questo forse è uno dei temi più interessanti: in un mondo dove siamo monitorati e schedati in ogni istante come è possibile sopravvivere quando ci accade qualcosa di terribile che viene diffuso rapidamente?
Si parla solo di reputazione distrutta, di vicini pettegoli, oppure è una questione più squisitamente antropologica? Perché la gente parla dall’alba dei tempi. Solo che le chiacchiere ora sono corroborate dalle foto sui social, i commenti degli haters, i giudizi degli estranei. E questo perché chiunque ha la possibilità di scattarci una foto e postarla senza chiederci il permesso. Magari resterà online solo per qualche ora, ma quel breve arco di tempo è sufficiente a renderci la pietra dello scandalo.

Hannah Baker era una ragazza carina e intelligente. Forse con qualche mania di protagonismo. Per 13 ragioni ha deciso di farla finita. Tuttavia, non sono 13 ragioni valide.
Il messaggio è molto chiaro per educatori, genitori, insegnanti. Ci sono persone che hanno bisogno di essere aiutate. Che non possono reggere da sole il peso della cattiveria, della superficialità e anche della violenza altrui.
Molte persone sopravvivono a quello che ha passato Hannah. Anzi, sopravvivono a cose molte peggiori. Hannah non è un’eroina, ma va a morire come se lo fosse. Il suo non è un gesto impulsivo in preda alla disperazione, ma calcolato, come si capisce anche dalla registrazione delle cassette. Sembra più “un’uscita di scena” in grande stile, con una punta di compiaciuto vittimismo.
E forse è questo che sta mettendo paura, il fatto che i giovani possano recepire l’idea malsana di morire da eroi quando non ce n’è proprio motivo.
Il personaggio non mi ha convinto fino in fondo. Tanto determinato e calcolatore da attuare un piano di comunicazione post mortem perfetto, e allo stesso tempo così fragile da voler sparire? La lucida forza impiegata nel registrare le 13 cassette non poteva essere utilizzata per diffondere – in vita – tutte le verità che c’era bisogno di divulgare? Hannah finge di lasciare il mondo con un messaggio di valore, da vera dura, ma alla fine chi ci ha rimesso davvero è solo lei. I compagni che hanno ascoltato le cassette hanno più o meno appreso la lezione di vita, andranno più o meno avanti, consapevoli si può sbagliare. Si può anche crescere però. Come fa Clay, l’altro protagonista, di fronte alla parabola di Hannah.
Pensandoci bene, questa serie propone una bella ragazza, sensibile e intelligente, che a un certo punto si sente sola, denigrata, abbandonata. Di troppo, insomma. E allora si uccide. In pratica è la vittoria delle apparenze e dei soprusi.
E quindi il messaggio è: volete farvi uccidere da queste due cose?
Alessia Pizzi
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