Domandate a qualsiasi diplomato cosa sappia di Giovanni Pascoli e delle sue poesie: probabilmente vi risponderà “il fanciullino” e “San Lorenzo io lo so perché tanto…“.
Questo nella più aurea delle situazioni. Perché, come spesso accade nelle scuole italiane, i protagonisti della letteratura vengono canonizzati, identificati in modo monolitico (basti pensare, come ricordava una collega, alla figura del Leopardi pessimista).
Ebbene, se c’è un poeta che mi è sembrato sempre troppo poco considerato (naturalmente mi riferisco al canone maschile, se dovessi nominare le donne ignorate dai libri di scuola probabilmente non basterebbe un articolo per ricordarle tutte) è proprio Giovanni Pascoli.
Questa riflessione è stata il succoso frutto di un esame ai tempi dell’Università, “La lingua di Pascoli” con Luca Serianni. E già il docente vi dovrebbe far intuire per quale motivo si palesarono in me tutte queste riflessioni.
Studiavo sul trenino diretto a Viterbo, a quei tempi, mentre scoprivo con stupore il merito di Pascoli, che a casa, non lo dimenticherò mai, chiamavano tutti col diminutivo Zvanì.
Prima di Pascoli, per farla breve, gli uccelli erano augelli. Nel senso che da Petrarca in poi la lingua poetica era rimasta quella trecentesca.
Pensate solo alla lingua di Ugo Foscolo o di Giacomo Leopardi. Il Pascoli rivoluziona la lingua poetica italiana non solo introducendo il parlato (appunto uccelli), ma anche il dialetto, le lingue speciali e quindi il linguaggio post-grammaticale (mi viene in mente il meraviglioso poemetto Italy, dove scrima sta per ice cream secondo gli emigrati italiani), il linguaggio fonosimbolico delle onomatopee e quindi pre-grammaticale. Persino il cosiddetto “baby talk”.
Giovanni Pascoli, poesie dello sperimentalismo:
Dialogo (Myricae)
Scilp: i passeri neri su lo spalto
corrono, molleggiando. Il terren sollo
rade la rondine e vanisce in alto: vitt… videvitt.
Italy (Poemetti)
Venne, sapendo della lor venuta,
gente, e qualcosa rispondeva a tutti
Ioe, grave: “Oh yes, è fiero… vi saluta…
molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-
stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…
Banalmente propongo questa riflessione in occasione del 10 agosto e della celebre poesia sulle stelle cadenti.
Ma Pascoli fa molto di più, e associa alla lingua parlata la poetica delle piccole cose, dell’universale che diventa singolare. Così una pioggia di stelle racconta la morte di suo padre in analogia con quella di una rondine che non rivedrà mai il suo nido e un gelsomino notturno che schiude la sera è metafora di una gravidanza appena iniziata nell’intimità di una casa.
Chiaramente non è questa la sede adatta per passare al crivello tutta la poetica pascoliana, ma spero che la riflessione sia un input per incuriosire i lettori a saperne di più. A prescindere che stasera riusciate a intravedere qualche stella cadente o meno – dal vostro atomo opaco del Male – concludo questo breve viaggio con il X Agosto, che qualcuno ogni tanto a scuola avrà sicuramente letto PER Agosto. Ma gli vogliamo bene lo stesso!
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh!, d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
Alessia Pizzi
Immagine di Alessia Pizzi, tratta dal libro "Lo specchio delle Muse"