Nel pensiero comune l’idea di mandare in pensione un insegnante genera quasi sempre un moto di sfrenata approvazione perché “In Italia non c’è spazio per giovani”, specialmente in ambito scolastico.
Tuttavia, ogni regola ha le sue eccezioni, e quando si parla di Luca Serianni è il caso di applicarle senza il timore di sbagliare.
Linguista egregio, nel senso più squisitamente latino del termine (fuori dal gregge), Serianni si è distinto nel corso della sua carriera accademica non solo come docente preparato e attento, ma anche come uomo di estrema sensibilità.
Chiunque abbia frequentato le sue lezioni negli ultimi quarant’anni ha potuto assaporare il vero piacere di apprendere la linguistica italiana, con tutte le difficoltà del caso. Luca Serianni, con la sua garbata compostezza, ha sempre regalato agli studenti corsi di storia della lingua italiana meritevoli di standing ovation. Letteralmente. Alla fine di ogni corso, l’ultima lezione prevedeva almeno 10 minuti di applausi da parte degli studenti.
Capite bene, quindi, che Serianni di ordinario ha solo il titolo come professore di Lingua Italiana. Il resto è tutto sui generis, tutto decisamente stra-ordinario.
Lo scorso 22 maggio il docente ha tenuto la sua ultima lezione prima della pensione presso la Facoltà di Lettere della Sapienza. Qualche giorno dopo ha commosso il suo auditorium con una lectio magistralis sull’insegnamento dell’italiano nelle scuole. Alcuni ragazzi hanno scherzato, come solo gli studenti di lettere potevano fare, scrivendo sui social “La Facoltà di Lettere saluta il suo Capitano”, con ironico riferimento al recente ritiro di Francesco Totti.
Augurandomi che non esista un girone infernale per chi osa analogie così ardite, non è così sbagliato affermare che gli umanisti abbiano salutato Luca Serianni con la stessa commozione con cui i romanisti hanno salutato Totti. Ogni disciplina ha i suoi capitani, quelli che fanno la storia. Chi per un cucchiaio agli Europei, chi per una Storia della Lingua Italiana in tre volumi.
O Capitano, mio Capitano, per dirla con Walt Whitman, la storia è stata scritta, ma non è finita qui. Luca Serianni non teme l’horror vacui, anzi lo sente “abbastanza lontano”, come mi racconta qualche giorno dopo la lectio magistralis.
– Ha mai avuto dubbi sulla sua scelta professionale?
Direi di no. I dubbi sono stati precedenti, come credo sia normale per chiunque, però insegnare mi è sempre piaciuto e su questo ero abbastanza sicuro. Da studente universitario già avevo questo orientamento.
– Lei è molto noto come docente, ma chi lavora all’università è anche un ricercatore. Intimamente si è sentito più insegnante o ricercatore in questi anni?
Mi sono sentito entrambe le cose. Ci sono, certo, dei momenti in cui ci si sente più ricercatore perché si sta facendo una ricerca particolarmente impegnativa che assorbe molto, però molte volte mi è capitato di fare dei corsi su un argomento che non conoscevo benissimo, anche se mi interessava, e poi di ricavarci qualcosa proprio come oggetto di studio. Questo per dire che ho sempre avvertito una circolarità tra le due attività, una corrispondenza.
– In questo momento di sconforto per la ricerca universitaria lei consiglia di procedere con un dottorato oppure no?
Il consiglio che do è molto semplice: di seguire le reali inclinazioni. Quindi di non scartarlo a priori, però di tenere conto che il dottorato è soltanto un titolo ulteriore di qualificazione e presuppone un altro successivo percorso che è complesso. Il consiglio che do è di guardarsi un po’ intorno, di non puntare tutto su questa voce. È il consiglio che darebbe un oculato agente finanziario quando si trattasse di investire una certa somma: di differenziare.
– Il suo nome compare nella nuova stagione del Teatro Eliseo. Qual è il suo rapporto con il teatro a livello professionale?
In particolare col Teatro Eliseo ho fatto per due anni tre lezioni, cosa che mi ha dato molta soddisfazione. La prima volta sulle tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio), mentre il secondo anno avevo scelto come tema “Alla ricerca dei poeti perduti”, soffermandomi su poeti o minori o non altrettanto noti delle tre Corone. Per quest’anno non ho ancora deciso, ma forse ritornerò al padre Dante, che offre una messe di spunti molto ricca e argomenti di carattere trasversale, come possono essere le invettive dantesche o le similitudini.
– Come vive il palco?
Lo vivo bene, avendo fatto per tanto tempo l’insegnante un po’ ci sono abituato.
– L’Accademia della Crusca è molto attiva sui social, tanto che adesso è conosciuta da tutti. Dal “caso petaloso” in poi, ormai la linguistica sembra essere diventata adatta a tutti i palati. Quali sono i limiti e i vantaggi di questo tipo di social media marketing per una materia così delicata?
I limiti sono solo legati al fatto che per i ritmi di risposta e per il fatto che le risposte vengono fornite da un numero abbastanza ampio di persone che gravitano, seppure con titoli, alla Crusca, il rischio dell’errore è forte. Naturalmente, venendo dalla Crusca, questo ha conseguenze spiacevoli. Il vantaggio è che quello che prima era legato ad un’immagine molto polverosa e arcaica adesso è largamente condiviso e corrisponde, del resto, a un interesse per la lingua molto diffuso, che non può che farmi piacere.
– Sempre dalla Crusca arriva Cecilia Robustelli e la questione “sindaca o sindaco”, protagonista anche di un recente inserto sul Venerdì di Repubblica. Lei cosa ne pensa?
In tutti i casi in cui i nomi professionali sono suscettibili di avere due generi diversi (se dico “preside” va benissimo, Il preside/La preside), io sono pienamente favorevole alla differenziazione. L’unico dubbio è che in molti casi le donne che svolgono una certa professione non gradiscono il femminile, e quindi non glielo si può imporre. Il primo esempio è quello di “ministro”. Le ministre sono ormai abbastanza importanti e comuni, però ricordo qualche anno fa il ministro delle Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, che disse di non voler essere chiamata ministra perché le ricordava la minestra. Ora, a parte le motivazioni, chiamare lei ministra avrebbe rivelato un’intenzione polemica o ironica, che non c’era.
Il secondo esempio è quello relativo alla professione di avvocato. Oggi per quanto riguarda la fascia più giovane (dai 40 anni in giù) le donne che svolgono la professione di avvocato sono più numerose degli uomini, però non ne conosco nessuna che si faccia chiamare avvocata o avvocatessa. Si fanno chiamare “avvocato”. Questo è un limite obiettivo: la lingua deve essere sempre accettata e usata in primo luogo dai parlanti.
– Se potesse scegliere una parola in disuso da far tornare in auge quale sceglierebbe e perché?
Ce ne sono tante, sono quelle del lessico intellettuale o astratto che sono diventate poco comuni nell’uso parlato, ma si trovano ancora nell’uso scritto. C’è solo l’incertezza della scelta. Basta prendere una parola del lessico fondamentale come “ricco” e pensare a un sinonimo più raro come “dovizioso”, che non è male e per chi ha studiato il latino ricorda più da vicino la parola divitiae, che voleva dire ricchezze. Dovizioso è una parola che tutto sommato può far comodo.
– Nuovo capitolo della sua vita, forse con più libertà. Quali sono i suoi progetti?
La libertà è molto relativa, perché ho molti altri impegni legati all’attività presso l’Accademia dei Lincei, la Crusca e la Dante Alighieri. Il prossimo anno comunque mi daranno un contratto gratuito e quindi continuerò una parte più limitata di insegnamento, quindi non avrò questa sensazione di vuoto. Per ora l’horror vacui lo sento abbastanza lontano.

Gli studenti di ieri potranno apprezzarlo a teatro, mentre quelli di domani avranno ancora il privilegio di essere suoi allievi.
Gli studenti del futuro, invece, non sanno proprio quello che si perdono. E se è vero che scripta manent (anche sul web), il mio consiglio è quello di fare un’ampia scorta dei suoi libri per condividere insieme a lui un amore senza tempo, quello per la “dolcemente complicata” lingua del sì.
Alessia Pizzi
(un’orgogliosa ex studentessa)
[La foto in copertina è tratta da https://www.facebook.com/SapienzaRoma/]