Seneca in pillole: opere e pensiero

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Filosofo stoico, drammaturgo, scrittore eclettico: questo (e altro) fu Seneca, una delle figure intellettuali più interessanti e complesse di tutto il periodo imperiale! E’ famoso, tra tutti, il suo tentativo (non molto riuscito!) di cercare di educare il giovane imperatore Nerone secondo i principi stoici.

Filosofia e potere: De clementia, ovvero il rapporto tra Seneca e Nerone

L’opera in cui Seneca esprime in modo completo la sua idea di potere è il De clementia, dedicato al giovane Nerone. In questo caso, il principato viene giustificato perché si tende al modello ellenistico dell’Εὐεργέτης, come idea di sovrano illuminato; inoltre, uno deve essere l’uomo al comando perché uno è il principio razionale, il λόγος, che governa armonicamente l’universo, e che deve essere rappresentato in terra attraverso la figura del monarca (o imperatore).

Il problema non è, dunque, sulla forma di governo, ma su quale debba essere il comportamento del buon sovrano. La clemenza, ovvero l’atteggiamento filantropico e benevole, è per Seneca la risposta.

La vera soddisfazione è la consapevolezza di aver fatto del bene!

All’inizio del trattato, Seneca rende espliciti sia il destinatario (Nero Caesar) che la tematica dell’opera (de clementia):

De clementia [1,1;1,2]: «[1] Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso che sei avviato a raggiungere il massimo dei piaceri. Infatti, benché il vero frutto delle azioni rette sia l’averle compiute e non ci sia alcun premio degno delle virtù al di
fuori delle virtù stesse, giova esaminare attentamente e percorrere la propria
buona coscienza, e poi posare lo sguardo su questa immensa moltitudine discorde, sediziosa, incapace di dominarsi, pronta a saltar su per la rovina altrui e per la propria, una volta che avrà abbattuto questo giogo; e giova parlare così con se stessi:

[2] Sono, dunque, io quello che fra tutti i mortali è stato preferito e scelto per fare in terra le veci degli dèi? Sono l’arbitro della vita e della morte delle nazioni: è nelle mie mani la decisione sulla sorte e sulla condizione di ciascuno; quello che la fortuna vuole che sia dato a ciascuno dei mortali, lo fa sapere attraverso la mia bocca; da una nostra risposta popoli e città traggono motivi per rallegrarsi; nessun luogo prospera, se non per la mia volontà e per il mio favore; tutte queste migliaia di spade, che la mia Pace fa rimanere nel fodero, ad un mio cenno verranno sguainate; quali popoli debbano essere distrutti completamente, quali fatti spostare altrove, a quali si debba dare la libertà, a quali strapparla, quali re debbano essere ridotti in schiavitù e quali teste debbano essere insignite della dignità regale, quali città debbano crollare, quali sorgere, dipende tutto dalla mia autorità.»

Si mette subito in evidenza che la vera soddisfazione del bene è la consapevolezza di averlo fatto. Successivamente, Seneca lusinga Nerone, puntando tutto sul suo “tallone d’Achille”, ovvero la sua forte sete di potere.

Il princeps deve permettere a tutti di avere una dignità in quanto uomini

De clementia [1,3;1,4]: «[3] Nonostante tutto questo potere, l’ira non mi ha mai spinto ad infliggere supplizi iniqui; non mi ci ha mai spinto l’impeto giovanile, né la temerarietà o la tracotanza degli uomini, che spesso toglie la pazienza anche dagli animi più tranquilli; non mi ci ha mai spinto l’orgoglio funesto, ma diffuso in chi è a capo di grandi imperi, di ostentare la propria potenza seminando terrore. La mia spada è riposta nel fodero, anzi è legata, ed io ho cura di risparmiare il più possibile anche il sangue più vile; non c’è nessuno che, pur essendo privo di altri titoli, non trovi grazia presso di me solo per il suo nome di uomo. [4] Tengo nascosta la severità e sempre pronta, invece, la clemenza; sorveglio me stesso, come se dovessi poi render conto alle Leggi, che ho richiamato dalla dimenticanza e dalle tenebre alla luce. Prima mi sono commosso per la tenera età di uno, poi per l’anzianità dell’altro; ad uno ho perdonato per la sua dignità, ad un altro per la sua umiltà; ogni volta che non ho trovato una ragione di misericordia, ho risparmiato per me stesso. Oggi sono pronto, se gli dèi mi chiedono il conto, ad enumerare tutto il genere umano.»

L’attenzione è posta soprattutto sulle Leggi, l’uso delle quali dipenderà esclusivamente dalla saggezza o meno di Nerone. Inoltre, il princeps deve permettere a tutti di avere una dignità in quanto uomini: tale concetto verrà ripreso anche nella famosa Lettera sugli schiavi.

Un’unica e grande captatio benevolentiae!

De clementia [1,5;1,6]: «[5] Tu puoi, Cesare, proclamare audacemente che tutto ciò che <è stato posto sotto> la tua protezione e la tua tutela è pienamente e che da parte tua non si sta alcun male, né per via violenta né di nascosto, alla repubblica. Tu hai bramato una lode rarissima e che finora non è stata concessa ad alcun principe: l’innocenza da colpe. Questa tua bontà singolare non spreca fatica e non trova uomini ingrati e malignamente avari della propria stima. Ti si è grati: nessun singolo uomo fu mai tanto caro quanto lo sei tu al popolo romano, per il quale sei un bene grande e durevole.

[6] Ma ti sei imposto un peso enorme; nessuno, infatti, parla più del divo Augusto né dei primi tempi di Tiberio Cesare, e nessuno cerca al di fuori di te un modello da presentarti perché tu lo imiti: si pretende che il tuo principato sia conforme a questo assaggio che ne hai dato. Questo sarebbe stato difficile, se questa tua bontà non fosse in te naturale, ma come presa in prestito per un certo tempo: nessuno, infatti, può indossare a lungo una maschera. Le cose simulate ricadono presto nella loro natura; quelle sotto le quali c’è la verità e che, per così dire, nascono da qualcosa di sostanzioso, col tempo si accrescono e migliorano.»

Il paragrafo 5 può essere letto come un’unica captatio benevolentiae, con il fine di preparare Nerone ad alcuni moniti di saggezza: infatti, nel punto successivo, c’è molta retorica politica, in quanto, confrontando Augusto con Nerone, Seneca dice che la gente non si ricorda il principato augusteo, ma solo il governo di Nerone, perché il princeps è soltanto specchio di se stesso, non dei suoi predecessori.

Le Epistole a Lucilio

L’opera principale della produzione tarda di Seneca è le Epistole a Lucilio, indirizzate all’amico. I modelli per la creazione di questi scritti sono, sicuramente, le lettere di Platone e, soprattutto, quelle di Epicuro. In più, Seneca è consapevole di introdurre un genere nuovo nella letteratura latina: le sue lettere vogliono essere spunti per il miglioramento spirituale del lettore, all’interno, però, di un contesto quotidiano. Questo si può vedere perfettamente nella seconda di queste lettere, dedicata al tema della lettura:

Epistole a Lucilio [2;3]: «Non giova né si assimila il cibo vomitato subito dopo il pasto. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiare medicina; non si cicatrizza una ferita curata in modo sempre diverso. Una pianta, se viene spostata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possederne quanti puoi leggerne.»

Attraverso prima una metafora alimentare, poi una medica e un’altra dell’agricoltura, Seneca mostra come troppi libri possano produrre dissipazione. Per l’approfondimento culturale, dunque, bisogna scegliere attentamente i propri autori (magari uno legge meno, ma meglio!).

Questo discorso porta a considerazioni di carattere educativo: anche Quintiliano dice che bisogna partire da prime, sane e buone letture (come i testi di Cicerone), per passare ad altri autori solo dopo aver acquisito una buona preparazione.

Epistole a Lucilio [2;5]: «Anch’io mi regolo così; dal molto che leggo ricavo qualche cosa. Il frutto di oggi l’ho tratto da Epicuro (è mia abitudine penetrare nell’accampamento nemico, ma non da disertore, se mai da esploratore); dichiara Epicuro: “È nobile cosa la povertà accettata con gioia”.»

Ogni giorno Seneca sceglie una massima su cui riflettere e va “nel campo nemico” dell’epicureismo: a Roma le varie scuole filosofiche non avevano differenze così tanto nette, anche perché miravano tutte ad un ideale comune di tranquillitas.

Vuoi saperne di più sulla filosofia di Seneca? Guarda il seguente video!

Tragedie di Seneca

Il teatro di Seneca non è rappresentato, ma recitato nelle sale di declamazione. In questo caso, il concetto della tranquillitas interiore viene presentato in “negativo“: non si vuole, infatti, convincere esplicitamente l’ascoltatore a puntare ad un miglioramento interiore, ma vuole dimostrare che seguire la strada opposta, il furor incontrollato delle passioni, porta alla rovina.

Nove tragedie su dieci sono rielaborazioni di modelli greci; l’autore principale è Euripide, per la sua capacità di rappresentare l’irrazionale e i conflitti interiori.

Anche nel caso di questa produzione, come nelle altre opere di Seneca, l’elemento politico si lega all’intento filosofico: i personaggi scelti nelle tragedie sono coinvolti in conflitti e delitti all’interno dello stesso nucleo familiare; tale era l’atmosfera presente alla corte di Nerone (si pensi, per esempio, alla fine di Germanico).

Contrapposizione tra ratio e furor

Medea [vv. 116-158]:

MEDEA: «Sono perduta! Alle mie orecchie è giunto il canto nuziale. Non riesco, non riesco ancora a credere alla mia sventura. Giasone ha potuto farlo? Lui che mi ha strappato al padre, alla patria, al trono, ora mi abbandona in terra straniera? Ciò che ho fatto per lui, quel crimine che gli consentì di vincere il mare e le fiamme, l’ha dunque dimenticato quel crudele? Crede davvero che la catena del male sia spezzata? Sconvolta, folle, il furore mi trascina, non so dove. Come potrò vendicarmi? Ah se avesse un fratello! Ha una sposa: ecco chi debbo colpire. E questo basta per le mie sventure? Se un delitto esiste che greci e barbari hanno conosciuto e le tue mani ignorano, ebbene, è tempo di prepararlo.

Ti spingano i tuoi misfatti e tutti ritornino a te: il vello d’oro, onore della tua patria, rapito, il fratellino fatto a pezzi dalla spada di una vergine perversa, il corpicino gettato verso il padre, i brandelli sparsi nel mare, sì , sì , e le membra del vecchio Pelia bollite nella caldaia. Quante volte ho versato crudelmente sangue funesto! Eppure nessuno di quei delitti io l’ho compiuto per odio. L’amore infelice rende crudeli… Però che cosa poteva mai fare Giasone, in balia com’è di un potere estraneo? Sfidare le spade a petto nudo. No, non così devi parlare, mio pazzo dolore. Giasone viva e sia mio come un tempo, se è possibile; se no, che viva lo stesso ricordando ciò che gli ho dato, morto a me sola.

La colpa è tutta di Creonte che, abusando del suo scettro, spezza il mio matrimonio, strappa la madre ai figli, rompe una fede che tanti vincoli congiunsero. È lui, lui solo, che deve essere colpito, è lui che deve pagarla. La sua casa, ne farò un mucchio di cenere. Nera, sorgente dalle fiamme, la colonna di fumo sarà vista sin dal capo Malea, che fa lunga la rotta delle navi.


NUTRICE: Taci, ti supplico. Nascondili, i tuoi lamenti, e soffri nel segreto del tuo cuore. Le grandi ferite, chi può restituirle? Chi le sopporta in silenzio, con animo fermo. Solo l’ira che si nasconde riesce a colpire. L’odio che si rivela perde la via della vendetta.
MEDEA: Se ascolta i consigli e si nasconde è un male da poco. Le grandi disgrazie non sanno tacere. Io voglio scagliarmi… NUTRICE: Frenalo, figlia, questo impeto furioso, è già un miracolo che il silenzio ti protegga.»

Ad essere al centro della scena sono Medea (il furor irrazionale) e la nutrice (il buon senso, la ratio filosofica). Soprattutto, negli ultimi versi, viene sviluppata la tesi della condanna del furor: in quest’ottica i patimenti degli eroi sono la condanna di chi si è fatto prendere troppo dalle passioni; è evidente, quindi, l’impianto stoico che sta alla base delle tragedie stesse.

Satira menippea

Tacito (Ann. XIII, 3;1) racconta della laudatio funebris che Seneca scrisse e Nerone lesse in senato in occasione della morte di Claudio. Ma Tacito ci dice anche che, quando Nerone iniziò a parlare della saggezza di Claudio, nessuno potè trattenersi dal ridere. In questo clima di doppiezza si spiega la produzione senecana della satira menippea Apokolokyntosis, letteralmente “deificazione di uno zuccone”.

L’opera rientra nel genere della satira menippea e, per questo, alterna prosa e poesia di vario tipo. Inoltre, sono richiamate alcune situazioni narrative (concilio degli dei, discesa agli inferi…) e citazioni epiche ed alte, rivisitate in chiave polemica e comica verso il defunto imperatore.

Apokolokyntosis [da 5 a 6]:

V

«Quel che successe poi sulla terra è superfluo riferirlo. Lo sapete benissimo, e non c’è pericolo che esca di mente quello che la gioia popolare ha segnato bene nella memoria: nessuno si dimentica della propria felicità. Sentite piuttosto quello che accadde in cielo: la conferma la troverete nella mia fonte.

Annunciano a Giove l’arrivo di un personaggio di statura discreta, e discretamente imbiancato: doveva avere chi sa che brutte intenzioni, perché tentennava continuamente la testa; strascicava il piede destro. Gli avevano domandato di che paese fosse, e lui aveva borbottato qualcosa con suoni inarticolati e indistinti; ma la sua lingua non la capivano: non era né greco né romano, né di altro paese conosciuto. Allora Giove chiama Ercole, che aveva girato il mondo in lungo e in largo e doveva conoscere tutti i popoli, e gli dice di andar lui e veder di scoprire di che razza fosse.

Ercole, al primo vederlo, ne ebbe sgomento, accorgendosi che ancora non aveva finito di avere a che fare coi mostri. Appena si trovò davanti quel ceffo di nuovo stampo, quel modo di camminare strano, quella voce che non era di animale terrestre, ma come quella dei mostri marini, cavernosa e cincischiata, ebbe paura che fosse venuta la sua tredicesima fatica. Guardandolo poi più attentamente, ci trovò una parvenza di uomo. Allora gli si avvicinò e, cosa molto facile per un greculo, lo apostrofò in greco:

“Chi, d’onde sei? dove mai a te sono patria e famiglia?”

Claudio si sente allargare il cuore, che ci siano là dei classicisti, e spera di trovare accoglienza per le sue storie. Allora, volendo indicare, con un verso omerico anche lui, di essere Cesare, rispose:

“L’aure da Troia ai Cìconi trasportando m’han spinto”.

Più vero sarebbe stato il verso seguente, non meno omerico:

“Là per me la città fu distrutta, e perduta coi suoi”.

VI

E l’aveva data a bere a Ercole, che non è punto malizioso, se là non ci fosse stata la Febbre, che sola era venuta con lui, lasciando il proprio tempio: tutti gli altri dèi erano rimasti a Roma. “Costui, disse, ti racconta frottole belle e buone. Te lo dico io, che son vissuta tanti anni con lui: è nato a Lione: ti presento un concittadino dell’uva “Marcus“. Ti ripeto, è nato a sedici miglia da Vienna, è un Gallo di razza. E così, da buon Gallo, si impadronì di Roma. Costui ti garantisco che è nato a Lione, proprio dove regnò tanti anni Licino. Tu che hai battuto più contrade d’un mulattiere di professione, devi conoscere quelli di Lione e sapere che dallo Xanto al Rodano ci corrono molte miglia”.

A questo punto Claudio piglia fuoco e si sfoga facendo più chiasso che può. Che cosa dicesse, non lo capiva nessuno; ma intanto lui voleva che mettessero a morte la Febbre, con quel suo gesto della mano tremolante, abbastanza ferma soltanto per il cenno con cui mandava la gente al taglio della testa. L’ordine di mozzarle il collo lo aveva dato; ma si sarebbe detto che lì fossero tutti liberti suoi, tanto nessuno gli dava retta.»

Spiegazione del testo

Importante è notare la citazione omerica, perché Claudio era un amante dei poemi epici, ed era solito citarne i versi.
La seconda citazione, sempre dall’Odissea, crea un parallelismo tra Odisseo e Claudio, poiché entrambi distruttori di città: Odisseo quella dei Ciconi con un’impresa di guerra; Claudio Roma, poiché si diceva si addormentasse durante i processi e i liberti, approfittando, gli facessero firmare i documenti che volevano. Questo tono satirico, presente nel modo di trattare il mito, è già presente, poche righe prima, con la figura di Eracle, che, riferendosi a Claudio, dice di aver sconfitto tanti mostri (allusione alle sue dodici fatiche), ma un essere del genere non gli era mai capitato! Un altro importante elemento si può trovare nel sesto paragrafo: l’uso del termine latino Marcus si ricollega ad una qualità di vite in Gallia; in questo caso, si allude all’apprezzamento di Claudio verso il vino.

Lorenzo Cardano

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Da sempre innamorato degli infiniti modi che l'essere umano ha di esprimere se stesso, il suo entusiasmo e il suo tormento; per questo ho scelto di fare della letteratura la mia strada.

4 Commenti

  1. La mia opera preferita di Seneca è il De Brevitate vitae.
    Mi aveva colpita al liceo e l’ho riletto recentemente traendone nuovamente beneficio.

    • Ciao Valeria, grazie per il tuo commento! Mi fa sempre piacere! Sì, il Seneca filosofico (De brevitate vitae, De providentia, De tranquillitate animi…) è ottimo da studiare al liceo, anche perché, a differenza per esempio delle tragedie, si presta molto bene non solo ad un lavoro di studio, ma anche di traduzione… Sono, inoltre, importantissimi per poter comprendere la riflessione dello stoicismo di Seneca (sicuramente sono testi che non possono mancare nella biblioteca personale di un filosofo)! Tuttavia, per comprendere meglio Seneca non tanto come figura “filosofica”, ma come personaggio storico e letterario è meglio approfondire le Epistole a Lucilio (che sono uno dei primi e importantissimi esempi di epistole filosofiche nella letteratura latina), mentre il De clementia e le tragedie offrono un’ottima rappresentazione del rapporto tra intellettuale e potere imperiale.

    • Noi 2001 abbiamo saltato alla fine i due scritti (italiano e greco/latino)… Abbiamo fatto soltanto una specie di orale (fatto in fretta e furia), che sicuramente non è riuscito a rendere giustizia alle fatiche di 5 anni. Comunque non invidio per nulla quelli che, nel 2018 se non sbaglio, avevano Aristotele da tradurre!
      Noi matricole, invece, verso dicembre, per fare l’esame scritto di latino, ci siamo beccati un testo di Seneca dove si parlava di gabbie per topi (secondo la nota in fondo alla pagina) e ricchezze… ti lascio solo immaginare!

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