È certamente inusuale vedere il cinema di Hirokazu Koreeda distreggiarsi tra le aule di tribunale.
Non solo è per lui un genere nuovo quello del “thriller” processuale, ma anche l’approccio è più diverso del solito. Più classico, in un certo senso. Pertanto, ciò che esce fuori è un film di genere inevitabilmente e fortunatamente adattato alla poetica del regista. Ma anche, onestamente, un Koreeda che si piega lui stesso alle regole del gioco.
Dopotutto la premessa dietro il film non è originalissima. La storia di un avvocato che, difendendo il suo cliente da un’accusa di omicidio, scopre che ci sono altre verità e deve lottare tra la propria morale e la voglia di vincere il processo, mentre tutti compongono e decompongono la verità a proprio piacimento. Ciò che aggiunge Koreeda, come solo lui sa fare, è il ribaltamento dei sentimenti, nel quale l’imputato si fa giudice delle prospettive altrui. E, ovviamente, quel tocco costante nel suo cinema dedicato ai legami famigliari, il cuore pulsante di ogni pensiero per il giapponese. Padri, figlie, parenti, ancora una volta il nucleo di sangue è il centro dell’azione, quel motore che scatena cause e conseguenze anche delle cose più brutte.
Ecco, forse proprio qui il film inciampa leggermente. È uno dei pochi casi in cui Koreeda si trova a ritrarre personaggi estremamente cinici, per motivi differenti.
Mentre la ragazzina è l’anima vera del film, tutti gli altri personaggi manipolano i propri sentimenti. E così anche l’impossibile delicatezza dei film precedenti del regista, quel suo marchio di fabbrica inconfondibile che commuove pur muovendosi tra sentimenti spesso inesplosi, si perde talvolta tra le sottolineature del genere processuale e le note musicali di Ludovico Einaudi che sembrano non appartenere ad un film del giapponese.
The Third Murder è indubbiamente un film che funziona, che colpisce, e rimane efficace nella sua intera durata. Capace di far scattare quelle corde emotive che ognuno di noi ha nella propria etica, nel proprio senso di giustizia. Ma da Koreeda, forse, ci si aspetta sempre di più, si vuole sempre vederlo capace di superare il proprio film e renderlo unico, renderlo soltanto suo, non confezionarlo come anche altri potrebbero fare.
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Emanuele D’Aniello
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