Sono convinto, anzi, convintissimo che Takeshi Kitano non abbia perso un solo milligrammo del suo genio, istinto e creatività. Ma, al tempo stesso, sono altrettanto convinto che Kitano si sia stancato.
Da qualsiasi prospettiva tematica o cinematografica la si voglia guardare, la trilogia di Outrage è infatti una prova tangibile che Kitano si sia stancato di sperimentare. Non più seguito e apprezzato come un tempo, Kitano ha deciso di tornare ai film di yakuza pur di ritrovare pubblico e finanziamenti. Una resa artistica? Forse, eppure i primi due film si reggevano proprio su tale sensazione, così percepibile da diventare l’architrave di valutazione. Ora però Kitano ha iniziato a stancarsi anche di queste storie. Il risultato è totalmente evidente in Outrage Coda, il peggiore della trilogia.
Un film immobile, costantemente avvolto su sé stesso, perso in un mare di dialoghi, un oceano di parole, che non portano a nulla. I personaggi e le loro azioni passano davanti allo schermo senza scatenare una qualche emozione, e pian piano il film crea un impenetrabile labirinto di figure, alleanze, complotti, per cui diventa troppo ostico capire chi sta con chi e chi tradisce chi. Outrage Coda non dovrebbe essere così ostico, un gangster movie non dovrebbe diventare così ermeticamente bloccato.
Ciò che però si salva, rimane e erge da tutto il resto, come sempre è la maschera di Kitano stesso.
Il suo Otomo, molto più che nei primi due film della trilogia, qui diventa una figura simbolica oltre al personaggio fittizio. Otomo non è più un semplice killer, non solo una scheggia impazzita, ma un autentico angelo della morte senza fissa dimora che passa da omicidio a omicidio senza reazione, senza emozione, consapevole di essere incastrato in un circolo di violenza da cui non può più uscire. Non ha più nulla da perdere, più nulla da chiedere, e va avanti per inerzia lasciando trasparire un innato dolore che lo consuma. Lo stesso, appunto, si potrebbe dire proprio del vero Takeshi Kitano. E il suo volto tragicamente compresso riesce ancora una volta a racchiudere quell’ironia amara e la malinconia poetica tipica dei suoi film più riusciti.
E allora, oltre la trama iper-complicata, oltre la storia di gangster, Outrage Coda diventa un testamento del cinema di Kitano. Proprio perché annoiato, proprio perché stanco, Kitano riesce a costruire un filo diretto per comunicare emotivamente al suo pubblico. Otomo/Kitamo è incastrato tra la prima inquadratura, quella del mare che è simbolo del suo cinema, e quella citazione finale, il gesto di ribellione definitiva e disprezzo liberatorio. È impossibile, in tutto ciò, non ricordare il suo capolavoro Sonatine, non rivedere Otomo/Kitano imprigionato in un limbo esattamente come lo erano i personaggi di quel vecchio film.
Kitano è annoiato, Kitano è stanco, Kitano probabilmente ha tutto il meglio alle sue spalle. Ma non vuol dire assolutamente che Kitano sia finito, anzi.
Il suo genio ironico e sovversivo, lirico e tragico, è ancora perfettamente capace di colpire e affondare, di trovare un senso potentissimo tra le pieghe della banale ripetitività. Il suo volto lacerato ma sorridente rimane il simbolo di un cinema unico e inarrivabile, anche nei prodotti più deludenti come Outrage Coda innegabilmente è.
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Emanuele D’Aniello
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