Mektoub My Love Canto Uno, la vita in un’estate

mektoub my love

Me lo vedo, Abdellatif Kechiche, mentre legge i pareri alle sue lunghissime scene di sesso esplicito nel precedente La Vita di Adele.

Me lo vedo, e soprattutto mi immagino Kechiche pensare “ok, le avete trovate esagerate o fuori luogo, e allora il mio prossimo film lo apro direttamente con una scena di sesso lunga, esplicita, erotica”. Così si apre il suo nuovo Mektoub My Love Canto Uno (non chiedete però del Canto Due, è ancora presto per pensarci), ma più che altro è un’introduzione, una provocazione, e non l’umore delle tre ore che seguiranno e compongono il film.

Mektoub My Love è infatti lontano da ogni voglia di provocare o indignare. L’opposto, è semmai un grande inno alla vita, all’amore, agli errori e all’umanità più fragile. Vicino al racconto di formazione corale, con un protagonista che spesso e volentieri si fa da parte per lasciare il palcoscenico agli altri personaggi che si alternano sulla scena, Kechiche crea un onesto affresco sulla gioventù. Impressionista, sicuramente, ma anche tremendamente realista nel descrivere la psicologia delle varie figure ed il linguaggio che usano. Ciò che infatti più stupisce è il realismo e la credibilità dei dialoghi, che si sovrappongono costantemente come fanno esattamente le persone reali. Nessuno si ferma e parla mentre l’altro ascolta, non c’è un solo grammo di finzione nel film.

Soprattutto, è incredibile come Kechiche incapsuli nella sua storia l’essenza dell’estate.

Quella stagione che si attende, quando si è più giovani, ragazzi o adolescenti, e diventa un microcosmo di tutte le turbe personali. Kechiche inserisce amori, passioni, tradimenti, sentimenti fugaci, timidezza, litigi colpi di fulmine passeggeri, sguardi rapidissimi e sorrisi sornioni, voglia di evadere e desiderio di cambiare vita. Almeno per qualche mese, si intende. Ritrova persino il piacere degli adulti di ritrovarsi senza pensieri, mangiare liberamente in spiaggia in allegria.

Tutto ciò senza mai sbagliare tono, senza mai alzare l’asticella del volume. Capace di calibrare ogni scena al millimetro, e così se nella prima parte si formano le tensioni ed i sentimenti incrociati, nella lunga sequenza finale in discoteca, dato l’ambiente, si scatenano gli istinti. La discoteca è perfetta per inscenare un autentico baccanale, nel quale l’affetto lascia spazio all’invidia, la passione al desiderio più sfrenato, il flirt all’autentica libera sessualità. Tutti si sfogano e smettono di recitare, la galleria umana diventa se possibile ancora più autentica.

Nonostante ciò qualcuno storcerà ancora il naso sull’oggettificazione della donna da parte di Kechiche. Dopotutto, il vero protagonista silenzioso di questo film è soltanto uno: il culo femminile.

Il regista riprende costantemente il sedere femminile. Di tanti attrici che vediamo, ma in particolar della protagonista Ophelié. Il suo sedere è spesso in prima piano, la cinepresa di piega per inquadrarlo anche quando potrebbe evitare. Lo vediamo quando balla, quando cammina, quando è in acqua, quando si spoglia. In realtà, forse proprio per questa costante attenzione, non sembra esserci oggettificazione.

Sarebbe troppo esplicito, troppo morboso. Semmai, Kechiche crede davvero che il sedere diventi da un lato il simbolo delle pulsioni e del desiderio, della sessualità pura e dell’umanità nascosta. Le donne del film non sono mai oggetti, ma persone completamente in controllo del proprio io, del proprio ruolo, delle proprie capacità seduttive. I maschi, ad essere sinceri, sono quelli trattati peggio, costantemente incapaci di essere decisi, coraggiosi, fedeli o semplicemente onesti.

“È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla.”

Ho voluto citare, in chiusura, in maniera così netta La Grande Bellezza perché, in sostanza, uno dei più importanti significati di Mektoub My Love è proprio nascosto in tale monologo. Dopo oltre due ore di musica, rumore, risate, litigi, invidie e parole, il film si ferma ed il protagonista si ritrova da solo a contatto con la natura, a contatto con gli animali, creature che non parlano e non litigano. Lì, in mezzo alla semplicità incontaminata, col sole che tramonta alle spalle e nel silenzio improvviso, il protagonista vede un agnellino partorire due piccoli. Eh sì, solo allora si capisce che sotto il chiacchiericcio, o prima di esso, c’è stata la vita. E quella è esattamente ciò che conta, la bellezza di vivere. La bellezza di essere giovani, la bellezza di godersi una giornata al mare e le risate che non torneranno più.

Kechiche ci ha regalato tre ore di fresca e vera vita. Tre ore che passano velocemente, non pesano, tanto si rimane immersi e si entra a contatto con ciò che vediamo. Quel mondo che conosciamo e, probabilmente, vorremmo vivere ancora.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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