Appena terminata la visione del film, viene già da chiedersi cosa può creare Craig Zahler, il migliore regista che non ancora non conoscete, per la sua prossima fatica.
Brawl in Cell Block 99 è la perfetta risposta al dilemma dell’opera seconda. La ricetta è quella di replicare cosa ha funzionato nel primo, differenziarsi quanto basta, e aggiungere molto più lucida anarchia. Questo fa Zahler, una nuova voce del cinema completamente in controllo del mezzo e della propria visione. Un regista che riporta il cinema testosteronico di violenza pura al passato, ma in realtà pare rivoluzionario: in un panorama in cui è inflazionato l’action sotto le luci al neon, perfetto nelle coreografie e quasi pulito nell’esecuzione della bruttezza umana, Zahler opta per la sporcizia, per il rumore dei pugni e delle ossa che si spaccano, per il machismo diretto che non conosce filtri e risponde solo agli istinti animaleschi, per usare armi e pistole il minimo indispensabile. Riporta tutto alla semplice selezione naturale umana, in fondo.
Zahler, oltretutto, è uno che medita sulla violenza, sa come usarla e quando usarla. Come fa da decenni Takeshi Kitano dall’altra parte dell’oceano, ora il giovane regista si prende il suo tempo, costruisce la storia, costruisce i personaggi, costruisce i motivi, e quando abbassiamo la guardia, o pensiamo di conoscere ciò che vediamo, arriva l’improvvisa esplosione di sangue e urla gutturali che non ti togli più dalla testa. Centellinate, e per questo ancora più efficaci, ancora più terribili.
In particolar modo questo Brawl in Cell Block 99 è un trattato del suo cinema.
Mascherato da prison movie, il film è semmai la discesa negli inferi di una persona che deve accettare la propria natura di mostro. Un uomo violento, che nonostante la sua intelligenza e il suo colto sarcasmo nelle risposte è un primitivo che si abbandona a furenti scatti d’ira ed è capace della più brutale reazione. L’accettazione, naturalmente, deve passare per il sacrificio. E allora è quasi impossibile non vedere in quella croce tatuata dietro la testa, continuamente inquadrata, continuamente richiamata, il cammino di una figura cristologica al rovescio che per la salvezza altrui abbraccia con convinzione estrema, quai esasperata, il martirio, entrando metaforicamente nella gabbia dei leoni. La ricompensa però non è il Paradiso, anzi è l’Inferno, ma è l’unico luogo che può contenere quella pura rabbia.
Zahler nel suo paragone non è blasfemo, assolutamente. Il suo è un affetto incontaminato e lucidissimo verso l’etica estrema del suo protagonista. Non lo santifica, ma sa che è il più puro lì in mezzo. E lucido è anche un Vince Vaughn mai così in palla, mai così carismatico, mai così spaventoso. La possanza fisica c’è sempre stata, ora Vaughn aggiunge quel mix di forza esteriore e di tristezza interiore che rendono la sua interpretazione vibrante e indimenticabile.
L’esplorazione della violenza al cinema ha un nuovo standard, e dobbiamo ringraziare Craig Zahler.
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Emanuele D’Aniello
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