Arrival, si scrive “alieno” si legge “umano”

arrival

La fantascienza è un genere dalle infinite potenzialità ma abusatissimo.

Non a caso, la fantascienza è uno dei pochi generi cinematografici attraverso il quale si può sempre innovare ed essere originali nell’approccio e nelle storie da raccontare. Ma, paradossalmente, con la fantascienza al cinema si è già visto di tutto, specialmente nel sottogenere delle invasioni aliene.

Ci voleva quindi Denis Villeneuve, l’autore adesso maggiormente sulla cresta dell’onda e che, con la quota finora di un film all’anno, non sta sbagliando un solo colpo e pare incapace di fare film mediocri, per provare un approccio nuovo, tanto semplice all’apparenza quanto originale decisivo nell’utilizzo: quello scientifico.

Sia chiaro, Arrival è un film di fantascienza completo, ovvero di quelli che sanno al tempo stesso trasmettere un senso di curiosità, un senso di meraviglia che diventa pian piano senso di inquietudine e paura del’ignoto, con i discorsi più esistenziali e più personali, e di conseguenza fondamentali, che ci poniamo quando andiamo di fronte all’intellegibile. Eppure Arrival non deve e non può essere bollato come semplice sci-fi (non che sia una parolaccia, ma talvolta un limite verso la scoperta delle infinite possibilità narrative e tematiche di questo genere), semmai come un racconto moderno sulle relazioni umane, verbali e non, visto attraverso la lente della scienza e del fantastico.

Parlando infatti di alieni, viaggi spaziali e contatti con altri mondi ci si dimentica spessissimo che la parola “fantascienza” ha come desinenza la scienza, appunto. Villeneuve a differenza di molti altri non lo dimentica, e nella gara degli ultimi anni a chi è in grado di fare film “high-concept” sempre più realistici, vince a mani basse. Arrival pone domande e questioni che nessun altro film prima aveva mai posto, ovvero come parlare con gli alieni, come farci capire e come dedurre le loro intenzioni. Insomma, molto prima dei proiettili, oltre la paura, più forte dello stupore, c’è la mente umana, l’arma più potente di cui disponiamo.

E’ fuor di dubbio che Arrival, oltre la struttura scientifica principale, sia anche e soprattutto altro. Come detto prima con la mente c’è sempre il cuore, e le relazioni umane al primo posto. I fortissimi echi esistenziali del film, quello che lo rendono per me molto più di un semplice sci-fi, molto più del semplice racconto “intrippante” (il finale non a caso non si può rivelare), sono l’ancora che lega la storia alle emozioni più universali, più forti, più lampanti. Arrival è una parabola sulla necessità di imparare, o meglio rimparare a comunicare al giorno d’oggi, in un mondo in cui pur se siamo sempre più connessi l’uno con l’altro, in realtà diventiamo più distanti ogni giorno che passa, vogliamo erigere altri muri e preferiamo porre schermi di variabili grandezza davanti ai nostri interlocutori. Il dialogo è la chiave di tutto, la comunicazione delle parole e dei sentimenti, la collaborazione è ciò che ci può e deve salvare.

Arrival, nella sua ambizione e nella concezione, ha sicuramente echi e somiglianze sparsi in tanto cinema e in tanti film anche recenti, ma non è certo colpa di Villeneuve se tanti grandi registi vogliono confrontarsi con la mortalità, le emozioni e l’ignoto; semmai il suo film riesce nonostante ciò ad essere convincente e assolutamente unico, approcciando con un’idea ben chiara – la comunicazione – quello che mai potremo comprendere nel nostro arco vitale. Dopotutto comprendiamo prima la citata teoria di Sapir-Whorf, secondo la quale “lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla”: se iniziassimo a ricercare tutti insieme un fine migliore, sicuramente questo mondo sarebbe un posto migliore.

Emanuele D’Aniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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