Toy Story 4, una nuova avventura nel mondo dei giocattoli

Toy Story 4

Per parlare di Toy Story 4, dobbiamo inevitabilmente riparlare e ripartire dal finale di Toy Story 3.

Perché quel finale così perfetto, entrato immediatamente nel novero delle scene immortali del cinema, racchiude tutta l’essenza della saga Pixar su giocattoli immotivatamente e sorprendentemente senzienti. Andy che lascia i suoi giocattoli a Bonnie, con i giocattoli che capiscono il passaggio, è una massima sul ciclo della vita, sulla crescita, sul profondo significato dell’amicizia. In un certo senso, anche sul capire il proprio posto nel mondo.

Ecco, da questo concetto riparto ora. Perché lungo tre film, e adesso nel quarto capitolo, abbiamo seguito la storia di Woody in cerca del proprio ruolo. Woody è uno dei personaggi più complessi mai visti pur essendo, oltre che un giocattolo, definito da una sola caratteristica: la sua lealtà. Anzi, la sua sconfinata lealtà e il suo infinito senso d’amicizia verso Andy, e adesso verso Bonnie. Da una singola caratteristica i creatori di Toy Story hanno creato e delineato un personaggio ricco di paure e desideri, sogni e fragilità, doveri e difetti.

Non a caso Toy Story 4 è, più di tutti i precedenti, il film di Woody. Lo è perché arriva all’apice, e forse a compimento, il suo percorso di scoperta e accettazione, che poi altro non è che una crisi esistenziale umana.

Crisi esistenziale, paura, accettazione, non vi sembrano elementi comuni a qualcosa? A me sì: la morte. Il percorso di Woody è quello di chi deve capire e accettare la morte.

Allora, voglio ricollegarmi ancora a Toy Story 3 (non è colpa mia se è un film perfetto). Voglio ricordare, precisamente, la scena dell’inceneritore, quel momento in cui tutti abbiamo pensato che un film d’animazione su giocattoli parlanti avesse il coraggio di farli morire. Davanti agli spettatori, tragicamente. Non neghiamolo, per un secondo tutti ne siamo stati convinti. Rivedere quella scena, oggi, non perde di potenza.

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Pare incredibile a dirsi, ma Toy Story 4 è un film sulla mortalità.

La Pixar cerca di celarlo bene con un ritmo altissimo e un profondo senso d’avventura. Probabilmente, è il film della saga nel quale il divertimento è maggiore, le risate più di pancia, e il vertiginoso susseguirsi di assurde peripezie non lascia mai respirare.

Dopotutto, non dimentichiamolo mai, sono film orientati prima di tutto ai più piccoli. Eppure il target Pixar non è stato mai, ma proprio mai, quello dei bambini. I creatori sono dei geni perché riescono a mescolare i due mondi, offrendo prodotti divertenti e pieni di energia a chi non può cogliere i significati metaforici, e onestamente mai nascosti, destinati agli adulti. Discorsi profondi sui quali si fonda tutto l’universo animato Pixar.

Ne è pieno zeppo Toy Story 4, appunto. E se nel precedente film si chiudeva la storia della crescita di Andy, che come tutti i ragazzi diventati grandi lascia, ad un certo punto, il proprio nido (i genitori e il mondo dell’infanzia, della sicurezza, rappresentato dai giocattoli), adesso abbiamo l’altro lato della storia, ovvero cosa succede ai genitori quando i propri figli lasciano casa. Se prima abbiamo vissuto il cerchio della crescita, adesso c’è letteralmente il cerchio della vita: Woody “fa nascere” il simpatico Forky, lo fa crescere come fosse un bambino, e quando è rapito dalle vecchie bambole del negozio d’antiquariato in Woody quel senso di crisi esistenziale esplode in una autentica battaglia contro il destino.

Più di altri film, e pur essendo come già detto forse il più divertente, Toy Story 4 ha numerosi lati oscuri mai visti prima.

Un negozio d’antiquariato che pare un cimitero e nel quale le bambole si muovono come zombie. Personaggi così nichilisti da preferire la solitudine. Una letterale operazione di trapianto. Woody in questo film è vecchio, ed ogni gesto che compie, il più caparbio e altruista come sempre, lo spinge soltanto verso nuovi dubbi.

Da un lato, ha i suoi amici giocattoli, dall’altro, scopre un nuovo mondo di giocattoli abbandonati, senza padroni, che lo spingono verso di loro. Non ci vuole uno scienziato per intendere questi giocattoli come una sorta di fantasmi che abitano un limbo. La paura di diventare irrilevanti, che Woody ha sempre avuto fin dal primo film, fin da quando Buzz Lightyear ha “minacciato” di sostituirlo nel cuore di Andy, assume adesso i contorno della paura dell’abbandono. Una paura che si fa concreta quando conosce questi nuovi giocattoli: l’abbandono quindi, materializzato, è la paura di accettarlo e accettare cosa c’è dall’altra parte.

Non voglio naturalmente spoilerare il finale del film in questa sede. Basti dire che, pur non avendo l’impatto emotivo del finale del terzo film (ma parliamoci chiaro, era impossibile lo replicasse), ha addirittura più coraggio. Opera una scelta audace, e drastica, proprio perché la mira è su quel senso di consapevolezza finale. Segue il naturale percorso di Woody verso l’accettazione, oltre le proprie ossessioni. Per la prima volta Woody non pensa agli altri, non perché smetta di essere altruista, ma perché la paura dell’abbandono, dell’irrilevanza, quindi della morte, lo ha soffocato troppo a lungo.

Woody lungo quattro film ha rappresentato la classica persona che, pensando ai problemi, pensando all’inevitabile, vivendo nelle paure e nelle insicurezze, non è riuscito a godersi veramente la vita. Ha consumato i propri giorni pur essendo circondato da amici che gli vogliono bene.

L’amicizia vissuta attraverso la crescita è il tema fondante di Toy Story, ma non di Woody. Questa è la tragicità, pertanto anche la bellezza estrema, del personaggio: ha talmente tanto voluto bene a Andy, e ora a Bonnie, da non riuscire mai a godersi quei momenti per paura che finissero.

Che la Pixar sia riuscita a raccontare tutto ciò non solo attraverso l’animazione, ma soprattutto attraverso vicende di giocattoli parlanti, è incredibile. Davvero, non si può descrivere a parole l’intelligenza dei creatori, quanto hanno sedimentato il ruolo di Toy Story nella storia del cinema, quanto sono riusciti a farci voler bene a giocattoli parlanti che non esistono. Quante volte abbiamo pianto con loro, e ci siamo rivisti in loro.

Il finale perfetto di Toy Story 3 ci ha fatto sperare non ci fossero altri film, non si toccasse più quella magia per non rovinarla. Invece, Toy Story 4 non solo non ha deluso, ma è diventato addirittura il film più completo e necessario della saga (si potrebbero spendere altre mille parole sul ruolo e significato di Bo Peep), pur non essendo il migliore. Soprattutto, ci ha ricordato quanto siamo innamorati di questi giocattoli: il cerchio tematico forse è chiuso definitivamente, stavolta, ma siamo a pronti a gustarci altre mille avventure con loro.

Lunga vita alla Pixar. Lunga vita a Toy Story.

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Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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