Oggi sarebbe dovuto arrivare in sala, invece oggi è diventata l’uscita sulle piattaforme digital. Meglio di niente comunque per un film che vale davvero la pena vedere.
Tornare a vincere non è semplicemente un film che si vede, ma è un film che si vorrebbe fisicamente abbracciare. È davvero difficile non volergli almeno un po’ di bene.
E riesce a trasmettere tali sensazioni pur essendo, essenzialmente, un film molto semplice, molto basico, privo di momenti rivoluzionari. È una storia di redenzione personale attraverso lo sport come ne abbiamo viste in grande quantità al cinema. Ha tutti i crismi, i momenti di trama che accadono quando devono accadere, quei precisi colpi di scena che ci aspettiamo esattamente in quei momenti.
Eppure, come detto, si fatica a non voler bene a un film così. Perché i cliché – quella cosa che, non importa quando e come la si usi, funziona sempre e comunque, ricordiamolo – funzionano davvero bene. E soprattutto non sono gli unici elementi presenti.
Il regista Gavin O’Connor confeziona una perfetta storia di crollo e redenzione personale, con cui moltissime persone possono empatizzare, abbinata alla storia di rivincita individuale e riscatto sociale attraverso lo sport, e non c’è linguaggio più universale di questo.
Il regista è un vero esperto in questo settore, basta scorrere la sua filmografia. Soprattutto questa volta è bravissimo nell’azzeccare l’atmosfera nella quale calare i meccanismi già perfettamente oliati: non c’è un clima di epica euforia, non c’è un forzato traguardo vittorioso da raggiungere guidato da un crescendo narrativo. No, stavolta il collante è quella malinconia che unisce indistintamente dal colore della pelle, della provenienza sociale e dalla natura dei proprio demoni. In un film sportivo, nel quale lo spettatore è portato immediatamente a tifare per quella squadra di ragazzi perdenti, non c’è mai la sensazione che la vittoria possa arrivare e da sola spazzare via tutti i problemi, come in tanti altri film sportivi accade. Non è quello il punto di questo film.
E poi, arriviamo al punto, c’è questo Ben Affleck. Lui un grande attore non lo è mai stato e probabilmente mai lo sarà. Ma è una persona onesta, soprattutto nell’ammettere i tanti passi falsi della sua vita fuori dal mondo del cinema. Pertanto, laddove in tanti film ha fallito proprio perché non aveva appiglio emotivo su cui costruire i propri personaggi, e rimaneva poco più di un manichino dal grande carisma scenico, in Tornare a vincere Ben Affleck può invece mettere tutto sé stesso. Dolorosamente ma magnificamente.
Non so dire adesso se questa sia effettivamente la miglior della performance della sua pur notevolissima carriera. Senza dubbio, è quella che mi appare la più sincera e empaticamente efficace: in poche parole, la più pura. Con quegli occhi persi, con quelle parole rotte proprio quando serve, con quelle lacrime e le espressioni affaticate – lui che un mago delle espressioni proprio non è – Affleck trasforma alcuni momenti di Tornare a vincere in una autentica seduta terapeutica.
La prevedibilità della trama passa in secondo in piano di fronte all’efficacia deI tono plumbeo, della scelta di negare il carisma a un attore carismatico, soprattutto all’assenza di retorica. Ciò che conta è l’interesse del film nel comunicare che, in una storia di redenzione e sport, non è importante la vittoria, semmai è fondamentale ammettere, capire e combattere le difficoltà insite in ognuno di noi. Solo così si potrà veramente tornare a vincere.
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Emanuele D’Aniello