Ad un certo punto del film, uno degli adulti chiede alla piccola protagonista “a cosa state giocando?” e lei risponde “stiamo giocando e basta”.
Dove batta il cuore, gigantesco e caldissimo, di The Florida Project è lampante da questo piccolo scambio di battute. Gli adulti si fanno troppe domande, troppi problemi, rovinano la loro vita complicando ogni cosa che devono fare, sopravvalutando sé stessi. I bambini, invece, semplicemente la vita la vivono davvero, ogni attimo, in ogni situazione.
Forse The Florida Project è davvero un manifesto della purezza dei bambini. O forse il film è anche una lettera d’amore verso gli adulti, coloro che hanno le chiavi per rendere serena proprio la vita dei bambini. Dubbi a parte, quello certo è la posizione di The Florida Project come anti-coming-of-age-story: per una volta non è importante la crescita, anzi, è assolutamente meglio che i bambini rimangano tali il più a lungo possibile. Soprattutto, che sia loro possibile godersi ogni momento, che siano messi in condizione di stare lontano dalla sporcizia degli adulti. Che non diventino vittime, essenzialmente, degli errori dei più grandi.
Un film semplice The Florida Project, forse proprio per questo è ancora di più un piccolo miracolo.
Col suo film precedente Sean Baker aveva già mostrato un occhio particolare per le vite ai margini. Tangerine era un onestissimo spaccato della vita di due amiche transessuali, la loro ricerca di serenità nello schifo quotidiano del nostro mondo. Ancora una volta Baker guarda ai più indifesi, ancora in condizioni difficili: dai marciapiedi passiamo adesso alle case popolari. Baker ha l’abilità di trasformare in dinamico il quotidiano, con la sua cinepresa a mano. Infonde allo spettatore un continuo senso di urgenza, e pur mostrando piccoli frammenti comuni, piccoli episodi quasi insignificanti fatti di scherzi e giochi, costruisce un crescendo di tensione davvero universale.
Un cinema il suo erede del neorealismo, rifatto però nella cornice del cinema indipendente americano. Avrei potuto infatti intitolare la recensione anche “I bambini ci guardano” con una facile citazione, ma più che altro qui sono gli adulti a guardare i bambini vivere davvero. Tra questi la figura di Bobby è assolutamente emblematica, soprattutto per il modo sommesso e tranquillo con cui lo interpreta Willem Dafoe, praticamente l’opposto a cui siamo abituati dall’attore. Dire che Bobby sia il cuore della vicenda è riduttivo. Il suo è uno sguardo costante sui problemi di grandi e piccoli, le sue intenzioni sono sempre sincere e sempre buone. Strazia letteralmente il cuore vederlo quasi confuso di fronte a ciò che lo circonda, incapace di poter fare di più pur volendolo fare.
Proprio lui dipinge di viola quelle case popolari in cui vivono i piccoli protagonisti. Perché, più di tutto, come ci suggerisce il finale, i bambini hanno il diritto di sognare. Anzi, forse hanno quasi il dovere di farlo, quantomeno gli adulti hanno il dovere di permettergli di sognare. Che sia un castello magico che richiami il mondo Disney, quello dei sogni, che siano piccolo giochi innocente tra amici, per quanto pericolosi o brutti, che siano scherzi senza soluzione di continuità. The Florida Project ci ricorda quanto era bello essere un bambino, quando le peggiori difficoltà della vita possono essere superate dalla fantasia.
Ad un certo punto è doveroso crescere. Ma talvolta, non c’è davvero fretta.
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Emanuele D’Aniello
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