Torino 2017: Riccardo va all’Inferno, nei meandri delle tenebre umane

riccardo va all'inferno

Non so perché il giudizio sui film italiani, da almeno venti anni, si sia abituato alla mediocrità.

Resta il fatto che ogni qualvolta sbuchi un film italiano fuori dai soliti canoni – ovvero drammone da un lato, commediola dall’altro – il risultato è quello di apprezzarlo per “sostenerne l’audacia”. In realtà, Riccardo va all’Inferno è un film che va apprezzato e sostenuto a prescindere, soprattutto perché è un buon film con un’idea, e una visione, che segue fino alla fine al meglio.

Non a caso non è nemmeno l’originalità il suo punto di forza. Il film si ispira al Riccardo III di shakesperiana memoria, e sappiamo bene quanto la stravaganza sia componente fondamentale che rende gli adattamenti delle opere del grande drammaturgo inglesie così intense e, soprattutto, immortali. Questo film di Roberta Torre può ricordare il Titus di Julie Taymour, una trasposizione ovvero molto eccessiva, sopra le righe nel tono e nell’ambientazione, nei costumi e nelle scenografie, senza paura di sfiorare e anzi toccare a più riprese il kitsch.

Dopotutto solo chi capisce il ridicolo sa come usarlo a proprio vantaggio.

Riccardo va all’Inferno semmai ha il difetto di essere a tratti serioso, specialmente nella tonalità delle canzoni molto simili tra loro, nonostante il tono sfarzoso scelto fin dall’inizio. Comunque non è mai un vero musical, pertanto il difetto lo possiamo perdonare. A Roberta Torre piace mischiare serio e faceto, sacro e profano. Così il suo film si esalta laddove potrebbe crollare, nel mostrare e indagare l’eccesso.

Partendo da Shakespeare, spostandolo in un fantomatico regno criminale a Roma, il film diventa una onesta e spregiudicata indagine della follia umana. Lo faceva già il Bardo, non a caso. Riccardo va all’Inferno ci conduce, senza conforto, in un universo di diversi e reietti. I mostri, anche quelli sotto vagonate di trucco, sono i protagonisti del vero mondo. Una storia nera, funerea, fragorosa, in cui l’unico consiglio che si può dare è quello di accettare le parti più assurde e oscure dell’esistenza umana. Forse, solo i pazzi sono quelli che colgono davvero la casualità di tutto.

Nella recitazione enfatica del cast, prettamente di stampo teatrale, ovviamente Massimo Ranieri si erge tra tutti. Trasformato nel corpo, nel fisico, un novello Nosferatu che si aggira accumulando morte e orrori. In realtà è una figura tragica, che offre morte ma anela la morte come unica vero modo di vivere. La sua, più che pazzia, è una forma di illuminazione.

Un film che va apprezzato non perché diverso, nonostante faccia della diversità in ogni senso una bandiera. Ma un film lodevole perché, nelle sue imperfezioni, ha più senso, ambizione, complessità e tormento psicologico di tanti altri film molto più pompati.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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