Il 7 marzo 1999, oltre venti anni fa, moriva Stanley Kubrick. E io parto subito con le dichiarazioni audaci: è stato il più grande regista della storia del cinema. Un’opinione personale, certamente, ma per la quale non voglio usare i “forse” o scrivere “uno dei”. Il più grande, e basta.
Sicuramente il più cult, il più citato, il più influente, quello con la filmografia più impressionante. Il maniaco del controllo per antonomasia, il perfezionista che ha attraversato tutti i generi, l’uomo che già in carriera è diventato leggenda con quelle pause via via sempre più corpose tra un film e l’altro, il cineasta che ha travalicato il senso stesso del cinema.
Venti anni senza Kubrick sono tanti, ma per fortuna ci ha lasciato tanto da vedere e discutere ancora oggi. E noi vogliamo ricordarlo attraverso i suoi capolavori, invitandovi ancora una volta a recuperarli.
.Paura e desiderio (1953)
Il lungometraggio d’esordio di Stanley Kubrick è un film a bassissimo costo auto-finanziato e con un team di appena 15 membri, attori inclusi. La storia si svolge durante una non precisata guerra tra due paesi non identificabili: un plotone di soldati si perde in una foresta e dopo mille difficoltà riesce ad uccidere un gruppo di nemici, per poi scoprire alla fine che incredibilmente le vittime hanno i loro stessi identici volti.
Paura e Desiderio tecnicamente non è paragonabilie ai film successivi del regista, ha tutti i limiti dell’opera prima amplificati dalle difficoltà produttive e Kubrick stesso negli anni successivi lo ha definito dimenticabile. Nonostante ciò il film ha già in nuce i temi della sua filmografia e soprattutto una forza espressiva incredibile. Si parla di guerra (un setting che Kubrick ha più volte sfruttato) e del dramma che la violenza porta nelle vite umane, la spersonalizzazione dei conflitti e della vita militare.
Il bacio dell’assassino (1955)
Qui Stanley Kubrick lavora per l’ultima volta in carriera (cosa incredibile essendo appena il secondo film) su una sceneggiatura completamente originale. Col senno di poi questo si rivela essere uno dei maggiori difetti del film, che lo porterà nel futuro a ricorrere sempre a valide fonti letterarie. La storia di un pugile fallito che si innamora della sua vicina di casa e cerca di salvarla dall’ex fidanzato, violento e ossessivo, riesce a metà: ci troviamo di fronte ad una storia poco originale, priva di guizzi, con personaggi deboli, classica nella struttura e nello svolgimento che tarpa le ali anche alla creatività del regista.
Kubrick riesce a lasciare il segno solo nella bellissima scena finale, non a caso la migliore dell’intero film, la lotta tra il pugile Davey e il violento Vincent all’interno di un magazzino di manichini, uno scenario dispersivo e destabilizzanti in cui i volti e i corpi dei protagonisti si confondono con quelli dei manichini, un luogo surreale, una metafora della vita dei protagonisti marionette nelle mani di qualcun altro.
Rapina a mano armata (1956)
Dietro ad una classica storia di rapina organizzata da un gruppo di conoscenti e insospettabili si nasconde un film completamente nuovo per il genere nel 1956, narrato in maniera non lineare, destrutturato cronologicamente con diversi salti temporali indietro e in avanti, il cui punto forte è la rapina all’ippodromo raccontata con la tecnica del flashback sincronico, vale a dire mostrata a più riprese da diversi punti di vista dei vari personaggi.
Ma non è solo il totale controllo del mezzo tecnico e la creatività visiva unica a rendere grande il film, il talento di Kubrick esce anche dalla forza espressiva e dal modo di caratterizzare psicologicamente i personaggi, disegnando un gruppo eterogeneo di uomini deboli, indecisi, vittime della vita, dei loro problemi e delle loro scelte. È la rapina perfetta organizzata passo dopo passo demolita dal caso contro il quale l’uomo così imperfetto non può fare nulla.
Orizzonti di Gloria (1957)
Come tutti sanno, Stanley Kubrick è stato un regista estremamente versatile, in grado di realizzare film sempre diversi passando per tanti generi. In realtà, scorrendo la sua filmografia, c’è un genere che ha ripetuto e ha destato spesso la sua attenzione: il film bellico. Kubrick, raccontando la guerra e ogni singolo aspetta che la riguarda, ha esplorato e raccontato gli istinti primordiali dell’uomo e la miseria della condizione umana. In questo senso Orizzonti di Gloria è una delle più importanti opere antimilitariste di sempre, in cui l’onore e i codici bellici sono fortemente criticati per tenere in primo piano l’elemento umano.
E per chi ha sempre rimproverato a Kubrick di essere troppo freddo e distaccato, si andasse a rivedere il commovente finale di questo film.
Spartacus (1960)
Ad appena 31 anni Stanley Kubrick coglie l’occasione di girare uno dei film più maestosi e importanti nella storia del cinema fino a quel momento, ma non riuscirà mai a prendere davvero in mano il controllo sullo stile della pellicola: ad oggi questo rimane essenzialmente il film di Kirk Douglas, un titolo dalla trama stranota che si inserisce nel lungo filone di quegli anni di film epici in costume ispirati all’antica Roma, un prodotto essenzialmente commerciale totalmente in mano alle decisioni e ai capricci della sua star principale. Forse uno dei migliori film del genere, ma pur sempre solo un film di quel filone senza mai trovare un vero salto di qualità.
Da questo momento Kubrick capirà che dovrà avere il totale controllo su ogni fase della produzione, dalla nascita dell’idea del film fino alla distribuzione nelle sale, passando in mezzo per tutte le altre fasi cruciali. Da questo punto di vista dobbiamo ringraziare Spartacus per aver creato quel Kubrick che farà nascere capolavori in sequenza negli anni successivi.
Lolita (1962)
Quando il film uscì, la tagline di presentazione era: “Come hanno fatto a fare un film di Lolita?”. Rispondo io: non ci sono riusciti. Perché il film è diverso dal libro di Nabokov, complesso in modo diverso, approfondisce ed esalta altri aspetti. Prendiamo ad esempio la sequenza iniziale: il film si apre con l’omicidio di Humbert ai danni di Quilty, reo di avergli rubato l’amore di Lolita. Nel romanzo questo è il capitolo finale. Kubrick sceglie di partire dalla fine per due motivi: primo, non è suo interesse far seguire allo spettatore una trama normale che vada dal punto A al punto B, bensì farlo concentrare sulla psicologia e sui sentimenti dei protagonisti che hanno motivato le azioni appena viste; secondo, il protagonista è presentato, ancora prima che come pedofilo, anche come omicida, per cui empatizzare col personaggio è ancora più lacerante.
Poi, per motivi di censura, tutte le scene erotiche e i suoi accenni sono lasciati all’immaginazione. Il desiderio sessuale non è materiale, ma sempre percepito in ogni scena. Prevale l’atmosfera e l’introspezione delle azioni e delle scelte invece che il lato torbido e morboso, lasciando così che anche gli spettatori più tradizionali intendessero in modo meno scabroso una storia di pedofilia. Una storia popolata da personaggi cattivi e cinici, a cui Kubrick aggiunge sempre un gusto unico per il grottesco al posto giusto al momento giusto.
Il dottor Stranamore (1964)
Kubrick lo ha detto più volte: lui voleva realizzare un film serio sui pericoli della Guerra Fredda, ma solo lavorando alla stesura della sceneggiatura si rese conto di quanto fosse surreale e assurda la situazione, di quanto il rischio della fine del mondo causata da precisi comportamenti umani fosso troppo folle per essere raccontato in maniera seria e drammatica. E così nasce una delle migliori commedie di tutti i tempi, un film divertente, folle, anche inquietante, sicuramente il più anarchico di Stanley Kubrick.
Forse la più grande e più efficace satira politica mai realizzata, per l’intelligentissima sceneggiatura, per il sapiente uso delle location, per le straordinarie prove degli attori (Peter Sellers mattatore in tre ruoli), per l’audacia della tematica e soprattutto del modo in cui viene trattata e adattata in un precisissimo momento storico.
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2001: Odissea nello Spazio (1968)
In più di cinquant’anni fiumi di parole sono state usate, scritte, spesso sprecate per parlare non di un film, non di un capolavoro del cinema, ma di una delle vette massime dell’arte del secolo scorso. Parole superflue, perché nulla può davvero spiegare la profondità, il fascino, il mistero di un’opera che cerca di indagare e esplorare il significato della vita e cosa vuol dire essere umani.
Dalla notte dei tempi le solite domande esistenziali (chi siamo, cosa facciamo, quale è il nostro scopo) hanno impegnato le menti di grandi filosofi e non solo, e Kubrick ha dimostrato che anche il cinema ha il diritto, la forza, la capacità, le potenzialità di entrare e dire la sua in questa infinita discussione.
Arancia Meccanica (1971)
Stanley Kubrick appartiene a quella ristretta cerchia di registi le cui opere possono essere quasi tutte considerate cult. Arancia Meccanica, tuttavia, è forse il suo film più caratteristico, trasportato velocemente nell’immaginario collettivo per mezzo di molteplici ingredienti. In primis i personaggi, cinici e violenti, inseriti in un’ambiente ancora più cinico e più violento. E poi, ampliando il significato tratto dal romanzo di Anthony Burgess, è il discorso sulla violenza a fare la differenza. È l’uomo cattivo, perché incapace di reprimere i propri istinti violenti, oppure la società perché a forza vuole reprimerli, applicando un altro tipo di violenza?
Arancia Meccanica rimane, ancora oggi, il più potente film sul tema del libro arbitrio, un’analisi efficace proprio perché controversa e politicamente scorretta. Quando uscì una parte di pubblico accusò Kubrick di essere stato troppo diretto nella rappresentazione del messaggio. In realtà è un controsenso: un film con un così forte messaggio relativo alla violenza – da non confondere con un film che semplicemente contiene violenza e la utilizza come puro spettacolo – difficilmente può evitare scene dirette e crude. Dopotutto, show and don’t tell.
Barry Lyindon (1975)
Spesso, il difetto che i detrattori di Stanley Kubrick usano per criticarlo, è la sua freddezza e distacco dagli eventi che porta in scena. Non a caso, anche un capolavoro assoluto come Barry Lyndon è ricordato soprattutto per la messa in scena, per le inquadrature impeccabili, pittoriche nel vero senso della parola, per l’incredibile ricostruzione d’epoca, per l’impareggiabile fotografia qui tutta giocata sulle luci vere e su speciali lenti il cui aneddoto è ormai leggendario per ogni appassionato di cinema. E tutto questo è verissimo, per un regista famoso come maniacale e perfezionista, questo è il suo film più formalmente perfetto.
Barry Lyndon però è anche altro, una storia fantastica ed enormemente emozionale, l’ascesa e la caduta di un uomo raccontata con ironia e malinconia. Insomma, un film perfetto.
Shining (1980)
L’orrore non è l’uso del mezzo scenico, ma spesso e volentieri proviene dalla pausa viscerale e dal terrore psicologico. Quando un film ha tutti gli elementi menzionati, oltre che una resa scenica pazzesca ed una interpretazione monumentale al centro, non c’è timore nel dire di trovarsi ad uno dei miglior horror di tutti i tempi.
Si potrebbero dire tante parole su questo film, sui momenti iconici creati, sulle immagini entrate nella cultura pop. Basta pensare alle teorie, spesso folli, e alle valanghe di interpretazioni seguite all’uscita della pellicola per capire già cosa vuol dire creare un capolavoro. Ma la carica emotiva che le immagini trasmettono supera ogni razionalità. Non è un film da raccontare, ma da vedere.
Full Metal Jacket (1987)
Il regista che ha attraversato tanti e così diversi generi ritorna a quello a cui pare più legato: la satira anti-bellica. Film durissimo, che cucina lo spettatore mescolando l’umorismo nero della prima parte, che condanna la disumanizzazione dell’addestramento militare, alla pura realtà del conflitto sul campo della seconda parte, in cui non c’è più scampo per scappatoie morali.
La guerra uccide gli uomini, e chi sopravvive è trasformato in una macchina senza sentimenti: un insegnamento autentico che ci ha lasciato il grande regista.
Eyes Wide Shut (1999)
L’ultimo film del più grande regista di tutti i tempi è diventato fin dalla sua uscita esattamente come il suo autore: mitico. Per la lunga lavorazione e per la lunga attesa, per la morte di Kubrick prima dell’uscita (ma fece in tempo a finire il montaggio), per la sua tematica che secondo molti portò alla dissoluzione nella vita reale della coppia di protagonisti sullo schermo, Tom Cruise e Nicole Kidman.
Stanley Kubrick per il suo testamento cinematografico lascia da parte fantascienza, guerra, orrore e ideologia per tornare al quotidiano, raccontando la crisi di coppia, il sesso, le bugie, le paure e l’intimità. Basta un solo sogno, l’immagine della moglie che lo tradisce con un altro uomo, per gettare il marito in una crisi di coscienza. I sogni son desideri, si dice, ma molto spesso si possono trasformare in incubi reali. Kubrick ce lo ricorda col suo ineffabile tocco, l’addio di un maestro che rimane insostituibile nella storia del cinema.
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Emanuele D’Aniello
Che dire? Una meravigliosa carrellata su un genio del cinema fatta da una penna raffinata. Complimenti perché sai raccontare con amore e passione un’arte straordinaria.