Soldado, l’abisso umano non è mai stato così impalpabile

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Una delle cose più interessanti, al cinema e non solo, è l’esplorazione della cattiveria. Come nasce, perché nasce, come si espande, se ha ancore morali che ne fermano l’esplosione definitiva e soprattutto se è bilanciata da lati grigi.

La cattiveria è un elemento così essenzialmente nell’approfondimento della conoscenza umana – e, se possibile, ancora di più oggi vedendo i tempi in cui viviamo – da non poter essere tratta con superficialità o sussiego. Ma, ecco appunto, questa è esattamente la cosa che fa Soldado e l’errore nel quale si muove per due ore.

Per un film che infatti nasce figlio di storie di confini – non solo geografici, ma soprattutto morali – è sorprendente quanto Soldado sia sicuro di ciò che fa e quanto poco caratterizzi le sfumature o si affidi ai lati grigi. In un certo senso, Soldado è un film che va assolutamente dritto: imbevuto di machismo e amoralità, non si ferma mai un attimo a riflettere su ciò che mostra, ma è interessato solo a colpire nella maniera più ruvida possibile. Che poi, queste potrebbe andare anche bene in altri casi. Un film che sceglie di affidarsi all’esegesi della violenza per ciò che è, senza filtri o sovrastrutture, sarebbe coraggioso.

Il problema è che Soldado sceglie questa strada convintamente ma arrogantemente, debolmente. Non colpisce nel profondo perché è essenzialmente una storia vuota, non lascia alcun impatto perché non ha una vera distinguibile personalità.

La mancanza di un vero senso si riflette nella storia. La trama non va letteralmente da nessuna parte, e già verso la metà inizia a girare inutilmente su se stessa. Soprattutto, si affida a dei banali ami che non sono mai seguiti: il discorso d’apertura sulle infiltrazioni dei terroristi islamici nei territori di frontiera è interessante, e pure tremendamente attuale, ma rimane finalizzato solo allo shock stesso del momento, diventando quindi un qualcosa di pura exploitation che fa infuriare.

La mancanza di personalità la ritroviamo nella confezione. Spiace dirlo, perché vorremmo sempre che un regista italiano faccia successo a Hollywood, ma qui la mano di Stefano Sollima è uno dei punti più dolenti. Il regista romano è bravissimo a girare, non lo scopriamo certo ora, ma non è l’autore capace di far fare il salto di qualità ad una sceneggiatura. Sollima svolge il compitino affidato, e l’unica cosa che aggiunge è una sua eccessiva freddezza e forte compiacimento nel nichilismo messo in scena. La riflessione umana cui Sollima contribuisce è sempre asettica.

Questo in realtà è Soldado. Un film girato bene, recitato bene, calibrato bene, ma fin troppo cinico, distaccato, così disinteressato all’approfondimento, su qualsiasi aspetto, da limitarne l’impatto emotivo, qualunque esso sia.

Alcuni difetti sono ereditati da Sicario, ma lì si sopperiva a tutto esaltando i pregi. Ho cercato di ritardare il paragone con Sicario, ma francamente è inevitabile, sia perché Soldado abbraccia completamente quel mondo, sia perché il finale trasforma questo film soltanto nell’ennesimo capitolo di mezzo di una saga aperta. Indubbiamente Soldado vive in funziona di Sicario, ma perde completamente per strada la lezione impartita da quel film. Nel 2015 Denis Villeneuve riusciva ad elevare una storia piuttosto ordinaria in una grande indagine sui confini della moralità. In quel percorso, sfruttava il personaggio di Emily Blunt come surrogato del pubblico, che assiste alla violenza del mondo e ne rimane continuamente vittima. Ora, nel 2018, Sollima prosegue un discorso sulla violenza in maniera meccanica e poco ispirata, che tratta quasi con fastidio ogni (piccolo) squarcio di umanità.

L’abisso che Soldado mostra è sicuramente molto buio. Ma se contemporaneamente non ci mostra anche la luce come alternativa, non capiremo mai quanto è profondo.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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