Silence, la ricerca impossibile di Dio

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Silence, la ricerca impossibile di Dio

E’ indubbiamente difficile realizzare un film che si vuol fare, e quindi si è già girato chissà quante volte nella propria testa, da addirittura 30 anni. E’ molto difficile anche se ti chiami Martin Scorsese. E lo è ancora di più se questa storia racchiude, e quasi conclude rappresentando un apice filosofico che difficilmente potrà aggiungere qualcosa, un’intera carriera tematica e poetica cinematografica: la ricerca di significato nella religione, il peccato, la colpa, l’impossibilità dell’innocenza.

Perché idealmente è vero, adesso Silence completa una ipotetica trilogia spirituale iniziata con L’Ultima Tentazione di Cristo e proseguita poi con Kundun, ma tali importanti e personali temi, che rappresentano appunto la visione umana e non solo di Scorsese, hanno sempre inondato tutti i suoi film (basti pensare a Mean Streets e The Departed, solo per citare due esempi).

E non è soprattutto facile realizzare un film simile perché i temi rappresentano quasi la negazione del dinamismo cinematografico (tra l’altro, un marchio di fabbrica del regista): Silence non cerca la spiritualità, semmai raffigura la negazione della stessa, l’inesistenza della stessa, e si interroga sulle cause. I credenti, anche i non cristiani, sono costretti a convivere per sempre, senza alternative, col silenzio di Dio: è questa una punizione divina? E’ forse l’ennesimo test per certificare la forza della fede? O forse è l’ammissione implicita di una non esistenza?

Partendo dall’omonimo romanzo di Shusaku Endo (adattato con estrema fedeltà), e raccontando la storia di due missionari gesuiti che vanno in Giappone all’epoca delle persecuzioni contro i cristiani sotto l’arma dell’apostasia forzata, Scorsese mette in scena in realtà il proprio dramma interiore di fedele, e lo fa sotto le lenti meno spirituali possibili. E’ infatti incredibile pensare come questo film così ampiamente religioso sia approcciato in maniera così controllata, così fredda addirittura, come se il regista ammettesse l’inutilità di cercare certe risposte anche con la testa, anche ragionandoci su. Il silenzio di Dio è uno dei temi essenziali del cinema di Ingmar Bergman, e in questo film rivediamo molto della visione del grande autore svedese: i personaggi di Scorsese si interrogano, ma il loro è quasi un desiderio di conferma, una voglia di liberazione, un superamento della sofferenza interiore.

Silence è un film religioso ma non è un film spirituale, e questa è una differenza importantissima.

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Tramite metafore sceniche molto poco velate (la testa che rotola come quella di San Paolo, i denari lanciati al Giuda di turno, le umiliazioni pubbliche a cavallo come via crucis) Scorsese ci presenta, dal punto di vista umano, l’ennesima allegoria di Gesù Cristo: come il figlio di Dio ha dovuto sacrificare la propria versione puramente umana in nome della forma divina, il personaggio del missionario interpretato da Andrew Garfield non vive una vera vita in nome della fede. Tale struggimento, tale cieco annullamento è ancora più potente, più squassante se lo vediamo sotto la luce degli eventi contemporanei, in cui la fede si mischia a fanatismo ed estremismo, in cui le promesse di una vita ultraterrena sono più forti delle possibilità offerte dalla vita presente su questo mondo, in cui il terrorismo di matrice religiosa è la versione degenerata delle persecuzione antiche.

Avrete indubbiamente intuito che Silence è un film complesso e capace di offrire ostici quesiti filosofici che vanno digeriti, quasi impossibili da imbrigliare sotto la forma cinematografica. Non ci si può aspettare certo un film dinamico, e comunque non è certo il ritmo il problema, ma Scorsese fatica a trasformare in un vero film le domande più importanti, a far empatizzare con personaggi e situazioni che vadano oltre la ricerca della vera fede, e non giovano alcuni voice-over fuori posto ed un lungo epilogo quasi dannoso.

Silence è un lavoro molto personale e soffertissimo, in cui la componente meditativa è più importante di ogni sostanza cinematografica. Può piacere o non piacere tale approccio ed i conseguenti risultati, sicuramente lasciano un segno non da poco.

 

Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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