Room sicuramente ha una dote innegabile: è una storia, un’esperienza, un film che non lascia indifferenti.
Non solo per il classico avvertimento “portatevi i fazzoletti” che potrebbe fuorviare, perché Room commuove ma mai forzatamente o artificialmente. Ma perché affronta temi, metaforicamente, molto universali ed umani, e ci mostra un qualcosa che è tristemente reale, pensiamo a tanti casi di cronaca recenti. Certo, è un film che va visto sapendo il meno possibile, evitando i trailer, e per questo è anche difficile parlarne ora per non rivelare troppo, e non solo per non rovinare la trama, ma soprattutto per non rovinare il vortice di emozioni di cui il film è fatto.
Room non è solo la traduzione di “stanza”, perché per i nostri due protagonisti, madre e figlio, è il mondo, anzi, nel caso del piccolo Jack di 5 anni è veramente tutto il mondo intero e tutto quello che conosce. In pochissimi metri quadri è nato e cresciuto, perchè lì è segregata dal suo aguzzino la madre dopo esser stata rapita anni addietro. Capite già la forza emotiva di quanto tento di dirvi. Saggiamente il film è totalmente narrato dal punto di vista del piccolo Jack, con voce fuori campo e dettagli personali che ci fanno entrare in una dimensione a dir poco dolorosa. Come può un bambino di 5 anni non solo crescere così, ma addirittura essere sereno? La risposta è che per lui quella è la normalità.
Senza rivelare troppo della trama, posso dire comunque che il film non è relegato tutto alla stanza, per questo l’impatto emotivo del mondo esterno è così forte. Una madre, un figlio, il dolore e la voglia di sopravvivere in tali condizioni, provando addirittura ad essere felici. Tratto dal romanzo di Emma Donoghue, il regista irlandese Lenny Abrahamson ha tirato fuori uno straziante film di cronaca nera, una dolorosa metafora sulla difficoltà di tenere lontano i figli dai pericoli del mondo odierno, e soprattutto una bellissima storia madre-figlio. Il precedente film del regista era la commedia grottesca, ma sempre esistenziale, Frank con Michael Fassbender, in cui il protagonista passava la propria vita con una gigantesca testa di cartapesta indosso che non toglieva mai: Abrahamson, forse senza volerlo, ma riuscendoci comunque con grande efficacia, ha costruito in due film diversissimi anni luce tra loro un percorso sulla claustrofobia delle relazioni, su quanto sia difficile comunicare veramente e sinceramente al giorno d’oggi.
Sincero forse è la parola chiave. Perché, metafore a parte, quello che vediamo sullo schermo è tremendamente sincero e autentico, tanto che pure alcuni passaggi narrativi discutibili sono completamente a servizio del discorso emotivo principale. Dopotutto come può non essere sincero lo sguardo di un bambino di 5 anni verso il cielo? Come può l’abbraccio di una madre, con tutto quello che ha sofferto, essere poco autentico? Room è un film che colpisce perché originale – ci si aspetta che finisca in un determinato modo, ed invece “quello” accade a metà film per poi cambiare totalmente prospettiva pur rimanendo del tutto coerente a se stesso – ma soprattutto lascia il segno visivamente: Brie Larson ed il piccolo Jacob Tremblay sono affiatati oltre ogni misura. Lei è spesso usata in commedie, ed è una molto poco conosciuta qui in Italia, ma con questa performance entra di diritto tra gli astri nascenti del momento: poche attrici, infatti, oltretutto con così poca esperienza, sono in grado con un semplice sguardo di trasmettere almeno due o tre emozioni simultaneamente. Il piccolo Jacob Tremblay è travolgente: sicuramente guidato ed istruito molto bene, è comunque impressionante anche solo per come utilizza l’intonazione della voce; e poi appunto, i suoi occhi trasmettono tutto.
Room è il film che credi di capire ma non ti aspetti, credi di leggere ma riesce sempre a suscitare una emozione diversa: fuori dalla caverna platonica c’è il mondo vero, è l’unico che abbiamo e l’unico che può regalarti la semplice gioia di vedere madre e figlio mangiarsi un panino.
Emanuele D’Aniello