Quando il coraggio di emigrare per mantenere il proprio lavoro, viene premiato da una dimensione affettiva che si credeva perduta per sempre.
La storia di Prendre le large descrive una situazione quanto mai attuale nel mondo del lavoro. Dietro a parole come globalizzazione e delocalizzazione, si nascondono spesso incubi capaci di stravolgere la vita a milioni di lavoratori. Molte volte come un fulmine a ciel sereno. La protagonista è un’operaia non più giovanissima del settore tessile. Come alternativa al licenziamento le viene offerto un trasferimento in Marocco e un trattamento economico in linea con l’economia locale, ma rinunciando alla liquidazione.
La sceneggiatura narra le vicende in maniera estremamente realistica senza ricorrere a facili cliché drammatici. Il cambiamento in cui si spinge Edith, oltre ad inseguire la sopravvivenza rappresenta una ricerca interiore. Un bisogno quasi inconsapevole di dare un nuovo contesto alla sua esistenza. Diretto da Gaël Morel Prendre le large denuncia anche il cinismo dell’industria moderna. Grandi aziende, che davanti al profitto non esitano a sbarazzarsi dei lavoratori con proposte irricevibili.
Il regista fotografa le proposte ridicole delle aziende in alternativa al licenziamento.
Lo sbigottimento della direttrice del personale quando Edith accetta il Marocco come alternativa, è un’ammissione lampante di come tali proposte siano a volte ridicole. Lei stessa fredda tagliatrice di teste, si sorprende e quasi spinge la protagonista a non accettare la proposta. Nel veloce scambio di Edith con l’attivista sindacale, Morel congela in due battute anche l’inutilità di un’organizzazione ormai divenuta anacronistica, che non serve più i lavoratori ma solo se stessa.
Il coraggio di cambiare di una lavoratrice interpretata da Sandrine Bonnaire.
L’attenzione del regista a questi temi è un richiamo alle origini operaie della sua famiglia, evidenziato anche dalla rappresentazione della condizione lavorativa nella fabbrica marocchina di Tangeri. Più che al mondo del lavoro il film è un omaggio alla dignità e al coraggio del lavoratore, fatto di rinunce e scelte difficili e a cui la bellissima interpretazione di Sandrine Bonnaire rende onore.
Edith vive la sua grigia routine di vedova in un piccolo centro della provincia francese. Un’esistenza scandita solo dal ciclo dei turni, senza nemmeno più il conforto affettivo del figlio, trasferitosi per costruire altrove la sua vita. Una condizione di solitudine che agevola la sua pur difficile scelta. La nuova cultura e le nuove abitudini metteranno a dura prova Edith, ostacolata dal pregiudizio e dall’iniziale ostilità verso una straniera che non è li per fare la turista.
La dignità e la dolcezza di Edith capaci di vincere l’ostilità.
I modi riservati e la dolcezza di Edith però sapranno superare anche le difficoltà iniziali nel costruire rapporti umani. Il film fotografia anche la condizione della donna in Marocco, tra la tradizione del passato ed una spinta all’emancipazione che stenta a prendere il volo. Lo rappresenta benissimo il personaggio di Mina, interpretata da Mouna Fettou, proprietaria della pensione e madre del giovane Alì, l’attore Kamal El Amri, con cui per primo Edith stabilisce un contatto.
Prendre le large riesce a raccontare con delicatezza temi importanti ma in maniera incisiva, libero da immagini retoriche e dinamiche scontate. La volontà ostinata di mantenere la propria indipendenza attraverso il lavoro, è resa in tutta la sua forza nella scena della stalla in cui la protagonista raggiunge i suoi limiti estremi. Il regista pur utilizzando inquadrature dal realismo deciso, non tira mai la volata alla facile reazione emotiva, ma spinge sulla forza dei legami umani che riesce ad esprimere con estrema sensibilità. In questo senso dirigono anche le musiche di Camille Rocailleux e la fotografia che restituisce la luce naturale del paese nordafricano.
Bruno Fulco