La testimonianza di una condizione drammatica che esaspera gli equilibri e mette in discussione i valori dell’animo umano.
Quante volte ce lo siamo chiesti guardando le immagini dei territori di guerra diffuse in tv. Strade devastate barricate e macerie, il caos. Sullo sfondo palazzi bombardati e semidistrutti, ma ci sarà ancora qualcuno li dentro? Purtroppo oggi sono ancora in molti a vivere così, e Insyriated diretto da Philippe Van Leeuw esplora la quotidianità di questo dramma.
Il film ha il merito di fornire lo spettro completo delle sensazioni e degli stati d’animo, che prova chi è costretto in questa situazione. É girato completamente in interni, fattore che contribuisce a calarsi, per quanto possibile, nella dimensione soffocante di chi convive con la paura costante di essere centrato da una bomba.
Una giornata tra le mura di un appartamento di Damasco in piena guerra.
Anche lo sviluppo della narrazione, contenuto nell’arco temporale di un’intera giornata rende bene il contesto. I personaggi che animano la vicenda vengono scandagliati nelle loro ansie e nei loro movimenti, sempre condizionati dall’angoscia del pericolo imminente. L’ambiente casalingo perde il suo ruolo naturale trasformandosi in rifugio. Porte sprangate e rapidi sguardi tra le fessure di finestre socchiuse, autentica prigionia.
Gli echi delle esplosioni e i cecchini che sparano su ogni cosa che si muova all’esterno opprimono gli animi. Ognuno reagisce a suo modo, ed è in questo gioco di relazioni condizionate dal pericolo che si sviluppa il film. Davanti a situazioni inaspettate, ognuno sarà costretto a mettere in discussione i suoi valori nello sforzo esasperato di sfuggire alla morte. Gli attori sono quasi tutti Siriani scelti tra i rifugiati che hanno dovuto abbandonare il paese, ed è forse perché sentono in maniera particolare la tematica del film, che riescono a dare ai personaggi lo spessore umano più autentico.
Hiam Abbass interpreta magistralmente le angosce di una madre sotto il pericolo delle bombe.
Eccezioni sono Hiam Abbass e Diamand Abou. La prima nel ruolo della madre fornisce una grande interpretazione. Una maschera segnata dal peso che il ruolo di capofamiglia determina in certe situazioni. Consumata dall’impegno continuo nel tenere sotto controllo la situazione, impedendo alla paura di prendere il sopravvento e fornendo contemporaneamente sicurezza agli altri. Da lei dipendono i movimenti di tutte le presenze nella casa, che si spostano da un’ambiente all’altro con l’unico scopo di non destare sospetti all’esterno.
Anche quelli dell’angosciata e fragile domestica Delhani, interpretata in maniera convincente da Juliett Navis. Nell’appartamento si dà ospitalità anche ad una famiglia dello stesso stabile, la cui casa è stata bombardata. Segnale che la solidarietà può resistere anche in situazioni estreme, ma da ricalcolare ad ogni singolo evento. Fattore che spinge a volte le persone verso scelte morali molto dure in nome della sopravvivenza, primo e più forte tra gli istinti umani.
Una sceneggiature di estremo realismo.
Il set appare veramente autentico e riesce a portare completamente lo spettatore all’interno della vicenda. La tensione è insita nel film, rimane sempre viva e permette di comprendere pienamente la situazione narrata. Un’autenticità che il regista ha curato particolarmente, chiedendo a due colleghi Siriani in esilio di visionare la sceneggiatura, per assicurarsi che il film risultasse il più aderente possibile alla realtà. Risultato che il pubblico ha già premiato decretandolo vincitore nella Sezione Panorama al Festival di Berlino 2017.
Bruno Fulco