Detroit, gli orrori del passato non sono ancora lontani

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Da quasi un decennio il cinema di Kathryn Bigelow è diventato lo specchio della faccia oscura dell’America.

Senza filtri, senza distinzioni, la regista sta raccontando negli ultimi anni le più grandi distorsioni ed i più grandi peccati del paese più glorificato. Ancora una volta senza abbandonare la valvola di sfogo imperante per tale sentimento: la guerra. Se prima erano gli scenari dell’Afghanistan, ora semplicemente la guerra è portata dentro i confini americani.

Detroit è un film che più attuale non si può. Racconta gli scontri razziali del 1967 nell’omonima città, ma potrebbe mostrare anche gli scontri a Baltimora o Ferguson nell’ultimo biennio. Racconta delle violenza di poliziotti bianchi contro cittadini afroamericani, e come questi vengano poi assolti da un processo, e sembra davvero di rivedere i recentissimi casi di cronaca. Quello è lo scopo, naturalmente, raccontare l’America di oggi attraverso il passato. Mostrando il mantra essenziale della storia che si ripete e nessuno impara dai propri errori (o orrori).

In questo Detroit è assolutamente efficace. Non si limita alla semplice ricostruzione storica dei fatti, ma spinge l’acceleratore sui momenti più forti. La lunghissima sequenza di torture fisiche e psicologiche all’interno del motel The Algiers è un tour de force a tratti insostenibili per lo spettatore, in cui non si omettono urla, primi piani shock, sangue, colpi, annullamento morale. Difficile da guardare e, viene da immaginare, anche difficile da realizzare, e proprio qui la Bigelow si esalta sfruttando pienamente lo strumento a disposizione del cinema, ovvero quello di scatenare una reazione emotiva e sensoriale, qualunque essa sia, oltre la morale, oltre la provocazione.

Detroit funziona quando funziona quella lunghissima sequenza, il microcosmo dell’intero.

Però è dopo che il film si insabbia. Anzi, forse anche prima, perché spogliato della forza dell’idea rimane un film poco sorprendente. Il fidato sceneggiatore Mark Boal propone una solida e classica struttura in tre atti, tutti e tre distinguilibissimi, quando al film in realtà avrebbe giovato osare nella forma, lberarsi dagli schemi e accorgersi che i punti di forza non sono nel semplice racconto dei veri fatti del 1967. L’intera ultima mezz’ora dice quello che un cartello finale avrebbe detto in 30 secondi, col medesimo impatto. Soprattutto perché, al termine della sequenza centrale, lo spettatore è emotivamente spossato e svuotato. Ciò che viene dopo non ha la medesima potenza, e diventa una lungaggine da normale biopic che non aggiunge alcunché ai personaggi, alla vicenda, al messaggio civile del film.

Kathryn Bigelow si dimostra ancora una volta una delle registe più coriacee e coraggiose in circolazione. Sa sempre colpire, profondamente, e lasciare un segno. Va oltre le linee grigie e, cosa più lodevole, evita sempre cadute retoriche o facili sentimentalismi. Peccato solo che, forse accecata dalla missione di Detroit, dimentichi di dare forma cinematografica al suo film per tutti i 143 minuti di durata. Una pretesa, sicuramente, ma dalla Bigelow è doveroso aspettarsi sempre e solo il meglio.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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