Quo Vado? e la “finta” comicità di Checco Zalone

Lo ammetto: mi sono seduto a vedere il film partendo prevenuto.

La cosa peggiore per chiunque si appresti a commentare qualcosa è avere con dei pregiudizi, siano essi positivi o negativi (il mio caso, come avrete facilmente intuito, è il secondo). Ma badate bene, non è assolutamente un fatto divertente come qualcuno potrebbe pensare: nessuno vuole sedersi per due ore o poco meno a guardare una cosa brutta, ancor meno quando si è consapevoli, nessuno critica per il gusto di farlo, si spera sempre di essere stupiti, sorpresi, divertiti, si vuole che i propri pregiudizi vengano ribaltati. Voglio godere dello stesso divertimento degli altri, non essere sempre quello che non capisce cosa ci trovano di speciale. Quindi fidatevi quando vi dico che, nonostante partissi prevenuto, ce l’ho messa veramente tutta. Però nulla da fare, Quo Vado? ha confermato i miei pregiudizi.
Il problema principale è che assistendo a Quo Vado? si sa già di non vedere un film, perché regia, scrittura, recitazione, tecnica e temi non contano: quello che si vede è solo e soltanto il one man show di Checco Zalone, tutto nasce e muore con lui sullo schermo. Per dire, non c’è nemmeno lo sforzo di creare un personaggio fittizio: il nostro protagonista si chiama Checco Zalone perché lui è Checco Zalone, la sospensione d’incredulità su cui si fonda TUTTA la magia cinematografica qui va a farsi consapevolmente benedire.
Quindi, cosa dire veramente di Quo Vado? Questo è il quarto lungometraggio della coppia Zalone-Nunziante (regista la cui unica funzione dietro la macchina da presa è inquadrare solo il nostro protagonista) e il mio secondo come spettatore dopo Sole a Catinelle, e onestamente trovare le differenze tra i film di Zalone che ho visto è una missione impossibile. Zalone non fa cinema, non fa nemmeno vera comicità: i suoi lavori sono una serie di sketch legati da una trama di sottofondo dall’intreccio banalissimo e con una grossa povertà di idee (non parliamo nemmeno del punto di vista visivo…) perché nulla deve superare la verbosità di Zalone.
Sinceramente non voglio nemmeno criticare troppo le gag del film, perché dopotutto ognuno ride a cose diverse (e alcune cose davvero geniali Zalone le azzecca pure, come l’esilarante selezione degli immigrati a Lampedusa, oppure gli iniziali montaggi musicali), ma è lo stile comico alla base a lasciarmi ogni volta più perplesso. Quella di Zalone è una comicità estremamente verbale e parlata, non pensata (le battute fanno ridere se le dice lui, non perché veramente divertenti), una comicità dannatamente leggera e semplice, con lo scopo di parlare al più ampio raggio possibile di spettatori senza far male ad nessuno di essi. E’ la ricerca della leggerezza a tutti i costi, così forte da sfiorare il qualunquismo, ad essere il vero problema. Nel precedente film si prendevano in giro i ricchi ed i radical chic, quelli di destra e quelli di sinistra, senza mai graffiare veramente per cercare, usando un detto che a Zalone piacerebbe, di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ugualmente in Quo Vado? si prendono in giro il modo di vivere dell’italiano e il modo di vivere dei tanto celebrati paesi esteri, senza però tirar fuori una vera critica ai due mondi, lasciando tutto in superficie. Lo spettatore ride, non si sente accusato e anzi è felici di pensare talvolta le stesse cose di Zalone: insomma, un buonismo onnicomprensivo mascherato da satira sociale a più livelli.
Certo, non a caso questo è lo strumento più facile per ottenere gli incassi stellari e senza precedenti che Zalone porta a casa, ma è davvero l’unico fine possibile? Sinceramente, pur non essendo un suo fan e potendo vivere tranquillamente senza la risposta, più volte mi sono chiesto: “ma cosa vuole fare Zalone da grande?”. Perchè sia chiaro, Zalone ora può fare tutto quello che vuole, posizione forse unica nel cinema italiano attuale. Non dico che Zalone debba decidere di diventare improvvisamente un autore sperimentale o dedicarsi da domani ad un progetto drammatico, ma semplicemente capire se vuole essere per sempre il “Checco” dei suoi film e dei suoi spettacoli comici. Non è un male di per sé, ma un limite sicuramente sì. E trincerarsi dietro l’abusatissimo concetto “far ridere senza volgarità” lascia anche il tempo che trova (e poi la volgarità ha tanti lati, ad esempio in questo nuovo film c’è una dose di misoginia da far spavento). Personalmente, prima di vedere i film di Zalone, avevo una strana fiducia nel percorso del comico pugliese perché ricordavo i tanti comici italiani venuti dal cabaret televisivo e poi divenuti autori cinematografici di grande livello.
Ho ingenuamente avvicinato Zalone con la mente a casi come Verdone, Troisi, Benigni, ma siamo al quarto film, e Zalone non ha fatto un solo passo in avanti, e nemmeno uno di lato a dirla tutta. Dopo pochi film Verdone aveva abbandonato le macchiette e il dialetto, Troisi aveva tirato fuori tutta la propria malinconia a favore di uno sguardo verso i sentimenti, Benigni aveva abbracciato le proprie ambizioni. Senza tirare fuori paragoni scomodi, persino un trio come Aldo Giovanni e Giacomo, dal medesimo background, col tempo ha provato storie più serie. Ma tutti questi nomi hanno sempre avuto la testa per la vera scrittura, sapevano di fare film, mentre Zalone si rifiuta di crescere e continua a fare sketch, continua a sacrificare la narrazione in favore di discutibili freddure o inutili momenti musicali dall’italiano storpiato, e così continua a stracciare i record d’incassi italiani (ma poi è impossibile esportare i suoi film all’estero).
Credetemi, io ho davvero provato a divertirmi. La prossima volta spero che anche Zalone provi a fare qualcosina di diverso.
Emanuele D’Aniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

2 Commenti

  1. Spett.le Sign. UNKNOWN,
    sono Marco Rossi, un collega di Emanuele su questo sito. Io la ringrazio perché con il suo commento ha dimostrato di aver letto l'articolo e, quindi, di conoscere il sito. Pur tuttavia mi duole comunicarLe che il relazionarsi agli altri impone il rispetto di alcune regole molto semplici che fanno parte della cosiddetta "educazione". Il fatto che un recensore scriva qualcosa che vada contro il gusto di un lettore non può essere soggetto a risposte offensive come le sue. Ben vengano le opinioni contrarie, ma sempre nel rispetto reciproco. Assolutamente ben venga il confronto, ma solo se costruttivo. Poi, se permette, l'atto di recensire è un vero e proprio lavoro, quindi, visto il suo commento sovrastante, le rispondo che quest'articolo (con cui concordo su tutto) è il frutto del lavoro di Emanuele, e quindi "a lavorare" lui ci va sempre. Poi trovo che non sia giusto esprimere le proprie idee usando l'anonimato. Si esponga, su, come sto facendo io ora. È più bello, non crede?
    Cordiamente,
    Marco Rossi

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