Giudicare un film tratto da un’opera letteraria di William Shakespeare è più difficile di quanto possa apparire in partenza.
Il motivo è la mancanza di un coerente criterio di giudizio con gli altri film: come posso commentare la storia se questa appartiene non agli sceneggiatori, ma in tutto e per tutto al noto autore inglese? E non è nemmeno paragonabile ai tanti film tratti da romanzi, perché le opere shakespeariane sono state adattate più e più volte. Di fronte a questa nuova versione di Macbeth, le domande più pressati cui rispondere per analizzare il film sono due: se è un buon adattamento, e quanto si discosta dall’opera originale o dai precedenti film sul medesimo racconto. Ma pure qui si cela una nuova trappola: rispondere a queste domande è più necessario ai fans di Shakespeare che non al pubblico cinematografico generale. E allora evito ogni errore e mi concedo la risposta più diretta possibile: questo Macbeth è un grandissimo film a prescindere dalla pesante eredità letteraria, a prescindere dalle altre versioni cinematografiche, a prescindere dai criteri comuni per giudicare un film.
La fortuna del regista australiano Justin Kurzel, in un certo modo, è quella di trovarsi di fronte una delle tragedie più famose del Bardo, e anche la più breve, ma paradossalmente tra le meno trasposte al cinema (memorabili sono le versioni del 1948 di Orson Welles e soprattutto quella del 1971 di Roman Polanski). Un’occasione ghiottissima quindi per appropriarsi del testo e fare il film che si ha in testa, senza paura di paragoni superflui. E Kurzel la prima cosa che fa è essere coerente con se stesso: chi ha visto il suo precedente film Snowtown, e temeva che con un film in costume da impianto teatrale potesse snaturarsi, deve stare tranquillo, perché se possibile la carica nichilista e estetizzante del regista è pure aumentata.
La seconda cosa, probabilmente la più importante, è capire come rendere Macbeth materia cinematografica. Il film è fedelissimo alla tragedia originale, la trama è identica e pure il linguaggio usato (i cambi sono pochissimi e ininfluenti, a parte uno a cui arriveremo tra poco), così regista, tecnici e interpreti possono concentrarsi su altro, a cominciare dall’atmosfera, la vera arma vincente del film. Kurzel ed i suoi sceneggiatori hanno ben inteso la natura del Macbeth, forse la più funerea e folle delle tragedie di Shakespeare, e hanno creato più che un film, più che un adattamento, un autentico incubo ad occhi aperti. La discesa negli inferi di Macbeth e della moglie, la caduta nell’ambizione più sfrenata e la totale corruzione dell’animo umana è vissuta non solo dai personaggi, ma anche dagli spettatori stessi: con una colonna sonora ossessivamente inquietante e un montaggio che non permette di respirare il film prende il pubblico per mano e lo porta nei meandri più bui del delirio umano. Sporco, sanguinoso, fangoso, dannatamente realistico, il film a tratti assomiglia ad un vero racconto di guerra che inquadra Macbeth per quello che spesso si dimentica ma che realmente è: un soldato che combatte e rischia di morire sul campo di battaglia, un soldato e non un re che probabilmente è affetto dallo stress post traumatico dei suoi tanti duelli mortali – e questo aspetto più che evidenziare l’intelligenza di Kurzel sottolinea la modernità universale di Shakespeare – che perde la ragione. Le streghe, anche per come appaiono nel campo di battaglia, potrebbero essere tranquillamente una proiezione dei suoi deliri, le profezie nefaste potrebbero essere un’autoconvinzione nichilista del proprio subconscio, e nulla ci sarebbe di strano. La deflagrazione della mente di Macbeth è resa scenicamente dalla splendida fotografia di Adam Arkapaw, che pian piano si satura di colori fino a diventare letteralmente rossa, come se ormai nella testa di Macbeth ci fosse posto solo per il sangue e per una morte quasi corteggiata, e noi fossimo lì sul campo testimoni della sua fine, totalmente rapiti dal volto nervoso e al tempo stesso rassegnato di uno stupefacente Michael Fassbender.
Il cambiamento più significativo del film è dare alla coppia di protagonisti un figlio morto prematuramente prima della vicenda narrata, una piccola aggiunta che dà una prospettiva del tutto nuova al rapporto tra i due ed al percorso psicologico di Lady Macbeth. Tra i personaggi femminili più noti e complessi, tanto che appena al cinema c’è una donna cattiva si identifica subito come “novella Lady Macbeth”, qui la grande tessitrice è paradossalmente meno spietata e più umana nella propria cattiveria, perché all’ambizione si aggiunge la vendetta di un figlio strappato troppo presto e il dolore diventa il sentimento portante. Se nel testo originale Lady Macbeth impazzisce, qui nel film semmai lei diventa pian piano più lucida, e così più consapevole dei peccati atroci commessi da lei e dal marito. Il suo celeberrimo monologo finale, stupendamente inquadrato tutto in primo piano con una Marion Cotillard da applausi, è quindi ancora più straziante e getta una luce del tutto originale ad una vicenda comunque fedelissima alle pagine Bardo.
Questo Macbeth è l’ennesima prova del genio di Shaskespeare, che quattro secoli fa ha toccato tematiche ancora attualissime, anzi addirittura più forti adesso che non all’epoca, e l’importante conferma che, pur rimanendo fedeli, al cinema si può ancora essere sorprendenti e soprattutto potenti con un adattamento letterario notissimo.
Emanuele D’Aniello