Per un regista divenuto egli stesso Don Chisciotte, è giusto che per completare finalmente il suo Don Chiosciotte l’unica soluzione fosse ucciderlo.
Così, quello che Terry Gilliam dopo 25 anni finalmente ci presenta è un film catartico. Paradossalmente, perché non vorrebbe esserlo. Ma lo diventa, giocoforza, assumendo via via tutti toni realistici pur sguazzando nella fantasia.
Lo so, sto dicendo cose poche chiare, come se entrassi anche io nella follia di Gilliam. Ma seguitemi.
Per capire, dobbiamo inevitabilmente partire dalla travagliata genesi del progetto. Non è il caso di riassumerla, e poi se non la conoscete non siete degni di chiamarvi cinefili (ma tranquilli, a voi basta recuperare lo splendido documentario Lost in Mancha). Ma partiti dall’inizio, dai primi anni ’90, arriviamo fino ad oggi passando per riprese fallite, attori che si sono succeduti, un paio di protagonisti addirittura scomparsi – a loro è dedicato questo risultato finale – ovvie difficoltà economiche e pure una battaglia legale sui diritti della distribuzione. Così, per non farsi mancare niente.
Eppure, L’Uomo che Uccise Don Chisciotte è finalmente qui. Lo vediamo davanti ai nostri occhi, nei grandi schermi, lo vediamo noi e lo vede Gilliam stesso. Il punto non è “come è il film considerando le attese” semmai è “ce l’ha fatta nonostante tutto”.
La simbiosi con le difficoltà di realizzazione è stata talmente forte che Gilliam si è trasformato in Don Chisciotte, e la trama del film ideata più di 25 anni fa si è trasformata profeticamente e sfortunatamente nelle peripezie produttive reali. Un film che affronta la battaglia eterna tra realtà e sogno, tra illusione e concretezza, tra le necessità economiche dei produttori e le esigenze artistiche degli autori, esce dalle pagine scritte, esce dallo schermo e diventa il quotidiano di Gilliam. Pertanto, definire L’Uomo Che Uccise Don Chisciotte il suo film più personale sarebbe alquanto scontato. E ricordando la sua filmografia, anche definirlo il suo più pazzo sarebbe sbagliato. Allora, diciamo che questo è indubbiamente il suo film più anarchico.
Gilliam libera in L’Uomo Che Uccise Don Chisciotte tutta la sua energia repressa e la sua voglia di giocare col mezzo cinematografico. Il risultato è una serie di sequenze che mescolando reale e fantastico diventano un vero inno alla gioia di poter creare e fare film. Lascia liberi Adam Driver e Jonathan Pryce di divertirsi con l’istrionismo, ed i due regalano performance caratterizzate al giusto livello comico senza scadere nella macchietta. È questa inebriante confusione artistica a coinvolgere lo spettatore ma al tempo stesso cozza con la narrazione: il finale è lungo, ripetitivo e anche eccessivo, come se il regista avesse mollato gli ormeggi a favore soltanto della riuscita della missione.
La nave, comunque, arriva al porto sana e salva. Perché Gilliam è un pazzo, ma talvolta i pazzi vedono più cose interessanti rispetto a noi. Così facendo la sua figura si sovrappone a quella di Don Chisciotte stesso, che è l’eroe illuso per antonomasia, ma anche il più romantico e ingenuamente onesto che si ricordi. Far apparire la parole “fine” al termine della pellicola vuol dire uccidere Don Chisciotte: dopotutto, completare finalmente questo film non è solo realizzare un sogno, ma anche chiudere un incubo durato troppo a lungo. Finire un film, questo film, per Gilliam è la più grande forma di catarsi personale che possa esistere.
Singolare che riuscire significhi anche finire.
Incredibile che la massima soddisfazione coincida col porre fine a decenni di vita esclusivamente dedicata a quello. I paradossi della vita, e sappiamo che di queste follie il cinema di Gilliam si è sempre nutrito. Dunque, è bello vedere che la follia, per una volta, è veramente servita a qualcosa.
Il cinema è la terra delle opportunità: ne ha data una (un po’ tardi) a Orson Welles, e adesso un’altra a Gilliam. Per entrambi vale il medesimo verdetto: decidiamo dopo se il film è bello, intanto godiamocelo e siamo grati ci siano.
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Emanuele D’Aniello
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