L’Isola dei Cani è certamente uno dei migliori lavori di Wes Anderson, uno dei migliori film d’animazione degli ultimi anni e, a meno di autentici capolavori di prossima uscita, sarà il miglior film d’animazione di questo 2018.
Eppure tutto ciò è riduttivo.
Vedete, dire la verità talvolta non basta, ci vuole qualcosa di più. Ci vuole necessariamente quel qualcosa in più per far comprendere la magia che il regista è riuscito ad infondere alla sua favola canina. Mi trovo in sincera difficoltà a parlare di questo film, adesso. Dietro le inquadrature simmetriche, le battute distaccate, i colori pastello, ogni fatica di Wes Anderson nasconde un cuore che batte all’impazzata. E riesce a contagiare ancora di più con la stop motion, come se Anderson fosse libero da ogni costrizione del “reale” e le sue costruzioni di mondi prendessero letteralmente vita.
Partiamo allora dalla costruzione in sé, la forma assolutamente stupefacente. Non so quando capita, o ricapiterà, di parlare della fotografia in un film d’animazione. Eppure questo è il caso. Guardare L’Isola dei Cani è pura gioia per gli occhi, dalla fotografia al montaggio alla scenografia tutto è non solo curato nel minimo dettaglio, ma curato con un calore umano che trasuda da ogni inquadratura, da ogni tipica carrellata. La stop motion non è mai stata così letteralmente bella da guardare.
E poi c’è la strabordante sostanza. Come detto L’Isola dei Cani è una fiaba, e come tutte le fiabe intrattiene, commuove, e nasconde tra le pieghe un discorso più ampio, una metafora, una morale che non ruba mai il centro della scena e diventa fardello, ma rimane bussola silenziosa da orientare tutto senza distrarre.
Wes Anderson, che qui per la prima volta in carriera non racconta una storia di padri e figli, decide però di non celare mai il bisogno di calore umano.
Che poi dico umano in una storia con cani protagonisti, ma il senso è proprio quello. Un senso d’amicizia, di profonda e necessaria intimità, di doveroso contatto con qualcuno che ci capisca e comprenda. Wes Anderson cattura e coniuga l’intimità dei piccoli momenti, come un abbraccio al momento giusto o una lacrima che scappa con un significato enorme, alla complessità delle grandi tragedie, l’individualismo egoista che porta all’intolleranza e alla ghettizzazione del diverso. Non è una parabola sulla strisciante xenofobia contemporanea L’Isola dei Cani perché non è il primo obiettivo di Wes Anderson, ma non leggere anche quello è impossibile.
Il cane è il miglior amico dell’uomo, e tutti noi abbiamo bisogno di un amico. Di un qualcuno vicino, un qualcuno che ci conforti e ci sia in ogni momento. A Wes Anderson interessa l’immediatezza del contatto umano, più di tutto. La morale di L’Isola dei Cani ci mette in guarda: in assenza di quella, il rischio è il respingimento dell’altro, in pratica di tutto ciò che ci rende umani.
Non ci sono barriere linguistiche, non ci sono confini nazionali, ci sono gli essere umani. Quella di Wes Anderson è una fiaba realistica con i cani e l’animazione. Ecco, definirlo geniale è ancora una volta dannatamente riduttivo.
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Emanuele D’Aniello
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