Le Mans ’66 La Grande Sfida, cinema classico a settemila giri

Le Mans '66 La Grande Sfida

La storia di Le Mans ’66 La Grande Sfida, come si evince dal titolo italiano, è ambientata negli anni ’60. Ma, a dir la verità, il film stesso sembra uscire da quel decennio. Probabilmente, all’epoca, sarebbe stato il prodotto perfetto per regalare l’ennesimo ruolo iconico a Steve McQueen. Nella sua struttura, nella sua idea, nel suo sviluppo, il film appartiene ad un modo di raccontare storie e personaggi che più classico non si può.

Tutto ciò non è necessariamente un male, soprattutto per merito del talento eclettico di James Mangold. Per il regista, classico è prima di tutto un certo amore per i personaggi, per le loro battaglie contro gli ostacoli della vita, e un modo armonioso di accompagnare le emozioni degli spettatori. Moderno, però, è il talento col quale riesce comunque a inserire temi caldi della sua poetica nei meandri di una narrazione biografica che scorre lineare.

Mangold, come già aveva fatto con Logan, riesce a inquadrare generi diversi negli stilemi del western, il genere americano che più classico non si può. Qui abbiamo uomini che pilotano auto da corsa, ma somigliano tanto a uomini soli su cavalli che vanno contro il destino dell’ignoto della frontiera americana. E quindi, se proprio deve fare un cinema classico, Mangold lo esplora creando un filo comune tra western e genere di film sportivi. Altro genere classico infallibile.

Vi sfido, dopotutto, a trovare un film sportivo che non funzioni.

A prescindere dalla qualità, le storie sportive al cinema riescono sempre e comunque ad appassionare lo spettatore, a creare un vero tifo per la storia raccontata, o per un personaggio, a provocare ispirazione e desiderio di rivalsa. Come se noi trasmettessimo il nostro bisogno di vittoria nella vita al film che vediamo.

Fortunatamente, in Le Mans ’66 La Grande Sfida c’è anche tanta, tanta qualità. C’è il vero cinema, che riesce a non annoiare mai pur in 152 minuti pieni di durata. C’è la bravura degli interpreti che giocano col carisma, a cominciare da Matt Damon. Poi c’è Christian Bale che supera anche la sola presenza scenica, e riesce a creare l’ennesimo personaggio indimenticabile della sua incredibile carriera: testardo e senza peli sulla lingua, volitivo e tremendamente appassionato, il suo Ken Miles abbina al talento da pilota un’umanità ricolma di pregi e difetti che lo caratterizzano a tutto tondo.

La storia sportiva, come sempre, è metafora di tanto altro. E con una prestigiosa corsa automobilistica del lontano 1966, Mangold racconta il sempiterno contrasto tra forma e sostanza, tra il genio del talento puro, che non si piega a compromessi, e la meccanicità delle leggi industriali e di marketing. E racconta, soprattutto, il bisogno impellente di affermazione personale, la rincorsa verso quella vittoria sportiva che è, essenzialmente, il dimostrare di valere qualcosa, il sapere che si ha un posto nel mondo, che i sacrifici della vita hanno uno scopo.

Si va al cinema e si vedono film per tanti motivi diversi. Uno di questi rimarrà sempre quello di continuare a vedere film sportivi così ben fatti.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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