Non c’è niente da fare, i film di genere sportivo, o comunque quelli che usano lo sport come metafora, sono sempre i migliori. Per fortuna del cinema italiano indipendente, che ad alcuni pare addirittura strano esista, La Partita conferma questo infallibile assioma.
Non è certamente un film sportivo nella concezione e nella finalità questa opera prima di Francesco Carnesecchi. Tratto da un suo precedente cortometraggio, il regista con La Partita racconta una storia maledetta di periferia e sport inquinata dalla bassezza umana. Sport che, ovviamente, si deve leggere come “calcio”, perché lo sport in generale è il linguaggio più universale che ci sia, ma se siamo in Italia – e in particolare Roma – non può che essere il calcio il centro gravitazionale.
Dopotutto, chissà a quanti è mai capitato di imbattersi nelle partite giocate, spesso da ragazzini, nei campetti di periferia. Coinvolti direttamente, o come semplici spettatori di passaggio, tutti sanno che i tornei calcistici tra ragazzi in quei campetti in terra sono quanto più vicino ci sia ad un Inferno in terra: urla, falli, risse, genitori che scalpitano e perdono ogni freno inibitorio, crescita personale e di gruppo attraverso lo sport che viene azzerata e trasformata nella necessità impellente di affermazione e rivincita contro la vita.
Un microcosmo surreale che La Partita ripropone fedelmente e con tremenda efficacia. Con questo primo fondamentale passaggio, ovvero spogliare la rappresentazione di una partita tra ragazzi di ogni possibile romanticismo, morale, epica e leggerezza (non siamo dalle parti di Fuga per la vittoria, per intenderci), il film stabilisce un filo conduttore, tesissimo e drammatico, tra l’esterno e l’interno del campo di gioco.
La gara di calcio è essenzialmente un pretesto, perché a La Partita interessa raccontare una galleria di personaggi uniti dalla dimensione tragica. E, soprattutto, dalla capacità di scavarsi, sempre da soli, una fossa via via sempre più enorme.
Con una regia vibrante e sostenuta, seppur talvolta vittima di qualche cliché narrativo, specialmente nella costruzione di un paio di personaggi caricaturali, La Partita esplora senza filtri la disperazione della periferia italiana, mondo a parte nel quale frustrazione e difficoltà esplodono in rabbia e violenza. Sembra un’equazione scontata, ma non è così, perché la bravura del film è quella di esasperare i momenti decisivi e creare un’atmosfera nella quale le scelte umane non possono tendere al positivo.
E allora è proprio in quel campetto di terra, nel sogno di cambiare e crescere, di diventare verde, che La Partita racchiude un simbolismo fatalista. Quel campo di terra classico di periferia, simbolo di valori sportivi in via d’estinzione, che non riesce a cambiare. Se non attraverso il dolore, l’incomunicabilità, l’odio, la rabbia.
Tirare un rigore, segnare o sbagliare, è la metafora perfetta dell’attimo semplicissimo in cui una scelta giusta o sbagliata può cambiare tutta una vita.
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Emanuele D’Aniello