Non sono mai entrato in una scuola di cinema, e non ho mai frequentato un corso di scrittura e sceneggiatura, ma sono piuttosto sicuro che se dovessi farlo, sentirei in entrambi casi citare La Grande Scommessa come qualcosa che NON va fatta.
Il film di Adam McKay infatti distrugge tutti i normali canoni della narrazione, infrange la prima sacra regola del cinema “show, don’t tell” dicendo invece tantissimo, si parla sopra, spiega tutto il possibile, rompe la quarta parete e distrugge la sospensione dell’incredulità utilizzando attori con i loro veri nomi e veri volti nel mezzo della storia. E la cosa bella è che La Grande Scommessa funziona, non nonostante ma proprio per quanto detto. Anzi, dire che funziona è quasi un eufemismo, perché il film di McKay infrange le regole, le ricostruisce a proprio piacimento e compie l’impresa impossibile, ossia fare un film sulla borsa e sull’economia, lasciando intatti tutti i termini tecnici, di grandissimo intrattenimento.
Di film che hanno provato a raccontare la crisi economica globale del 2008 ne abbiamo visti tanti negli ultimi anni, dal rigoroso Margin Call fino al duro documentario Inside Job, ma mai nessuno prima d’ora aveva provato non solo a spiegare la crisi – perché difficile da capire per il pubblico e poco cinematografica – ma addirittura a renderla il perno d’interesse. La Grande Scommessa viaggia dentro la genesi della crisi e poi nell’occhio del ciclone, ma fortunatamente non perde mai di vista il lato umano della vicenda: il Michael Burry di Christian Bale e il Mark Baum di Steve Carell sono, con i loro difetti e dolori, veri uomini a 360%, e alla fine tutto gira intorno alle loro scelte e cambiamenti, a quanto sono disposti a sacrificare per rimanere umani in tale marasma.
Nessuno poi avrebbe mai pensato ad Adam McKay per un film simile, il regista delle commedie di Will Ferrell non è la prima scelta quando si progetta un film tecnico e dettagliato sulla crisi economica, ma proprio la sua sensibilità sovversiva e la voglia di rischiare sono l’arma vincente. Logorroico, avvolgente, trascinante, respingente e totalmente consapevole di sé stesso, La Grande Scommessa usa le tecniche più audaci e sopra le righe per tenere il pubblico incollato ad una vicenda che cita i mutui subprime e le obbligazioni decine e decine di volte, ed equilibra in modo prima narrativo e poi puramente scenico l’umorismo, il dramma e la ricostruzione documentaristica del caso.
Quando in una scena due giovani personaggi della vicenda si trovano nella sede della Lehman Brothers ormai vuota, a collasso avvenuto, e guardandosi attorno spaesati uno dei due esclama “pensavo di trovare degli adulti” capiamo che la missione prefissata da Adam McKay è portata a casa. Nella crisi economica non ci sono adulti, ma solo pazzi che non hanno saputo controllare i proprio vizi e ambizioni, così come nella realizzazione del film di maturo e sensato c’è poco, per lasciare spazio semmai al gioco di rendere tremendamente cinematografico ciò che sulla carta non è, giocando appunto con i trucchi più disparati. Non posso e non voglio paragonare ora La Grande Scommessa a quel capolavoro Il Dottor Stranamore di Kubrick, ma come allora McKay ha capito – similmente a Martin Scorsese un paio di anni fa – che spesso l’unico modo per comprendere l’irrazionalità umana è l’umorismo selvaggio, l’anarchia cinematografica e una serietà del tutto non convenzionale. In fondo trovare un film che diverte e insegna, pur con più del 50% dei dialoghi fuori dalla comprensibilità del pubblico, me incluso, non è cosa da poco.
Emanuele D’Aniello