La Casa di Jack conferma, in maniera oserei dire definitiva, un assunto che molti pensano da anni: i film di Lars Von Trier, in realtà, non esistono.
Chiariamo subito. Non esistono in quanto opere cinematografiche pure e autentiche, ma esistono come estensioni della psiche del suo autore. Non esiste al mondo, e forse mai esisterà, un autore che si identifica così tanto con le sue opere, dopotutto. Ogni regista mette un pizzico della propria esperienza e ideologia nei propri film, poi ci sono quelli che rendono i film praticamente autobiografici ad ogni occasioni. Von Trier, addirittura, compie sempre lo scarto successivo: il film è lui stesso.
Lo spettatore non assiste ad un’opera, ma ad una seduta di terapia in cui Von Trier è sia pazienza sia dottore. Non giudichiamo un film, giudichiamo pregi e difetti di un essere umano. E lui, col coraggio e la sincerità che nessuno ha, ma anche un pizzico di ruffianeria, si mette completamente a nudo. Forse troppo, forse oltre il possibile, perché il gusto della provocazione rimane insito nel DNA di Von Trier.
E, forse anche oltre il lecito che potevamo attenderci, La Casa di Jack è davvero la perfetta summa di ciò che Von Trier ha realizzato in carriera.
A cominciare dal risultato finale: un canonico “tanto rumore per nulla”. Ok, alcune parti del film sono per stomaci forti, più dal punto di vista emotivo che non orrorifico, ma chi si scandalizza di fronte ad un film come questo, frutto di una sensibilità debole e fragile, cade perfettamente nella trappola giocosa del pazzo danese.
Che non fosse veramente un horror o un thriller La Casa di Jack lo sapevamo dal primo secondo, conoscendo Von Trier. Il film, sotto la forma del monologo interiore, è una seduta di autoanalisi in cui il protagonista, ovvero il regista stesso, indaga sullo stato dell’arte e su cosa voglia dire sacrificare la propria vita al processo di creazione dell’arte. Un monologo rimpallato con un qualcuno che funge da censore, da moralizzatore, da freno, ma che essendo nuovamente un’altra parte del cervello di Von Trier assume la forma del delirio bipolare.
Non stupisce più di tanto quindi La Casa di Jack, tutto impelagato in costanti digressioni, visive e dialogate, su altri temi ed esempi che riportano all’esperienza artistica. Nella struttura episodica a flashback Von Trier riesce ad infilare spezzoni di altri film, spezzoni di suoi film (tanto per comprendere la totale consapevolezza dell’opera diventata analisi), disegni animati e immagini documentaristiche. Insomma, Von Trier ama esagerare e, in un certo senso, anche mitigare l’impatto sensoriale delle immagini cruente che offre. Perché Von Trier non è interessato alla violenza in quanto tale, ma a ciò che la violenza rappresenta come sfogo istintivo dell’uomo.
Allora ecco, finalmente, la chiave di volta. Leggere come un film normale La Casa di Jack non ha alcun senso. Vederlo invece, collegarlo e analizzarlo, con la sua opera precedente e praticamente gemella Nymphomaniac, getta una nuova incredibile luce su tutto.
Lars Von Trier in poco più di sette ore – due ore e mezza La Casa di Jack, quasi cinque ore la versione estesa di Nymphomaniac – ha realizzato un qualcosa di mai visto: ha usato se stesso, i propri demoni, i propri tormenti, le proprie ossessioni e idiosincrasie, come esempio per esplorare i due istinti primordiali che riconducono l’essere umano alla sua concezione primitiva, prima che le sovrastrutture e convenzioni sociali ci cambiassero: il sesso e la violenza.
Von Trier ha sempre ammesso di avere dei problemi. Nei suoi film ha ammesso ancora più esplicitamente di essere un pazzo che solo l’amore per l’arte ha contenuto e impedito di trasformare in uno psicopatico reale. La struttura narrativa dei due film è identica, l’intento psicoanalitico il medesimo, a cambiare è solo il fine: se Nymphomaniac era la dichiarazione di insanità mentale, e la ricerca delle cause, La Casa di Jack è la ricerca di una soluzione per contenerla (non superarla o guarirla, si badi bene) attraverso l’arte.
Arte che, come sottolineato nel film, è tale solo quando non ha morale. Questa è la premessa fondamentale per capire tutta la poetica maledetta di Von Trier, attenzione. Il suo è sempre stato un sapiente gusto per la provocazione, giocoso oltre i limiti de benpensanti, ma è sempre stato accompagnato da una consapevole vena tendente all’anarchia creativa. Giocosa anch’essa, ma fondamentalmente dolorosa perché frutto di una lotta interiore, con i propri demoni, e esteriore, con chi ha provato a mettergli un freno o un’etichetta.
Sembra paradossale, pertanto, arrivare ad una simile conclusione, ma La Casa di Jack, pur non essendo uno dei film migliori e più riusciti del danese, è forse il suo più importante. E se visto con Nymphomaniac, ripetiamolo ancora, compone l’esperienza più ricca, affascinante e inquietante per i suoi ammiratori.
Chi è Von Trier, e cosa è il suo cinema, non lo capiremo mai. C’è tutto e il contrario di tutto nel suo stile. Ma su una cosa possiamo essere certi: nessun autore è così tanto onesto nella propria ruffianeria e coraggioso nelle proprie provocazioni giocose. Dopotutto il cinema di Von Trier ha sempre funzionato proprio perché denso di contrasti che rappresentano le insicurezze e debolezze umane: un cinema respingente, ma così colto e affascinante da essere magnetico.
Non deve piacerci, come regista o come persona, per comprenderlo. Possiamo anche accusarlo di misoginia o follia, spesso a torto e spesso a ragione, e al tempo stesso apprezzarlo. Lui fa film per se stesso che finiscono per catturare la parte buia di ognuno di noi. A vincere è sempre e comunque la sua tracotanza. Quella che lo spinge ad immedesimarsi in un serial killer capace di commuoversi solo quando si rivede bambino. Quella che lo stimola a superare tutti i limiti possibili, anche quelli dell’Inferno stesso.
Ma nel suo personale abisso Von Trier finisce sempre per ricadere, qualunque cosa si immagini di fare. E questa visione onesta delle cose e del proprio io, per quanto maledettamente ripugnante e malsana, lo erge a figura insostituibile del cinema mondiale. Anzi, di tutta l’arte degli ultimi decenni.
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Emanuele D’Aniello