Come si fa a ridere, a essere felici, a guardare dall’altra parte, quando l’intera società, l’intero mondo va a rotoli?
Questo è l’urgente quesito che si pone Joker, film sulle origini del più famoso villain dei fumetti che, essendo completamente slegato e autonomo da ogni collegamento con altri film dell’universo DC, rimane lontano da quel contesto. Potrebbe non esserci il Joker e il film funzionerebbe ugualmente. Ma al tempo stesso, e forse proprio per questo, è così fedele alla psicologia del personaggio da esserne una delle sue più fedeli riproduzioni.
La conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto il cinefumetto sia il genere cinematografico più importante di questo inizio secolo. La riprova di quanto il genere sia malleabile e comunque sempre funzionante e funzionale, poiché Joker non ha nulla del linguaggio degli altri film del genere, ma ne sfrutta i personaggi e gli ambienti per raggiungere universalmente più persone possibili.
Perché tutti, si dovrebbe ammettere purtroppo, sono investiti dalla domanda iniziale posta del film. Domanda che però svela già intrinsecamente, e dolorosamente, la sua risposta. Dovremmo provare a ridere, provare a essere felici, tentare di avere speranza e dare speranza agli altri. Ma quanto è dannatamente difficile oggigiorno.
Quanto è difficile quando, ogni ora, in ogni telegiornale, senti qualcosa che va storto nel mondo. Quando senti che il primo pazzo che passa, magari influenzato da anni di tv spazzatura ed esposto a ideologie deliranti senza filtri o contraddittori, ha preso una pistola e ha ucciso qualcuno completamente a caso.
Il Joker del film è proprio una delle tantissime figure di cui abbiamo letto nei titoli di giornali negli ultimi anni.
Il regista Todd Phillips trasforma la sua Gotham City in una città di fine anni ’70. Prende quella città a modello delle metropoli disastrate che tanto tristemente conosciamo. Abbraccia con piena fierezza e senza nasconderlo echi e reminiscenze scorsesiane che superano le influenze e diventano puro citazionismo. Eppure, nonostante lo sguardo al passato, Joker è un film che racconta l’oggi. Forse è uno dei film più sinistramente attuali mai visti.
Perché questo è: sinistro, inquietante, raggelante, perverso, persino esaltante a tratti. E questo fascino è la vera valvola che fa capire quanto queste storie facciano tragicamente presa nella nostra realtà. Non è certo un film rivoluzionario: il suo incedere narrativo è consequenziale, la discesa negli Inferi è verticale e prevedibile. Proprio per questo, però, è lancinante e ancora più potente, perché non c’è nulla che possa fermarla. Il nostro protagonista non diventa pian piano matto, ma è già un matto a cui, semplicemente, vengono date motivazioni e strumenti per concretizzare la sua pazzia. E questo senso di viscerale ineluttabilità rende la visione ancora più sconcertante, più disagevole.
La visione di Phillips, senza rivoluzioni copernicane narrative o tematiche, diventa incredibilmente efficace perché centra il punto senza paura di essere scabroso e senza necessità di edulcorare qualcosa, sfruttando un genere particolarissimo per parlare di altro, e nonostante ciò riesce a conquistare trasversalmente chi ama i fumetti e chi non li conosce, chi ama il cinema commerciale e chi cerca un cinema più d’impegno.
Oltre la qualità, cioè che stupisce di Joker è il suo forte senso di urgenza che lo rende, nella sua sconcertante immediatezza, uno dei film più importanti dei nostri tempi perché è l’esatta immagine dei nostri tempi: causa e effetto del mondo nel quale viviamo. Solo nel 2019 poteva essere realizzato e prima ancora concepito, perché mai prima d’ora i cinefumetti erano così importanti e il mondo sembrava sul punto di rottura.
Su un punto inerente la qualità, oltre l’importanza, però tutti saranno d’accordo: Joaquin Phoenix.
Era già un casting perfetto alla notizia che dovesse interpretare Joker. Lo è diventato ancora di più quando abbiamo realizzato che potesse interpretare QUESTO Joker. L’attore non si cala nella parte, diventa la parte stessa. I tic, il volto pallido ed emaciato, la fisicità che manca e per questo diventa icona, il modo col quale fa danzare un corpo scheletrico come fosse una danza della morte: tutto contribuisce alla performance, ogni singolo centimetro del suo corpo ancora prima del puro talento recitativo. Poi ovviamente c’è il lavoro immenso sulla risata. Perché scavare sul rumore giusto della risata, sul digrignare dei denti o su come il suono esca quasi squittendo dalla bocca, vuol dire letteralmente creare l’essenza del Joker ancor prima di mostrare chi è.
E chi è lo capiamo benissimo, infine. Certamente è il villain dei fumetti, l’arcinemico di Batman, sua antitesi e suo lato oscuro al tempo stesso. Ma, soprattutto, è l’archetipo dei pazzi che fioriscono nel marciume attuale. È sia l’individualità, colui il quale fa esplodere i propri folli risentimenti perché la società, invece di fermarlo, lo asseconda e gli dà i mezzi per deflagrare. È sia la collettività, colui che urla e blatera follia e unisce individui, spesso non pazzi ma semplicemente frustrati, che fanaticamente lo prendono sul serio. Non è quindi solo un cattivo, solo il simbolo del male, sarebbe troppo semplicistico definirlo solo così. È qualcosa di più nascosto, un disagio più primordiale e radicato nell’inconscio, che si crea e si nutre dell’oscura lucida irrazionalità da cui egli stesso è stato creato, paradossalmente. E per questo è ancora più pericoloso del semplice “pazzo”.
Forse Joker è un horror, anzi, lo è certamente, perché è un film che fa paura e capisce il significato della paura.
Capisce la viscerale paura che ognuno di noi ha nel profondo, pur volendola scacciare, nell’esatto istante in cui mettiamo piede fuori da casa. E quella paura tutta esistenziale che abbiamo, pur stando dentro casa, quando capiamo che talvolta non c’è più nulla da ridere. O forse, ancora peggio, quando ci sfiora il pensiero che ridere e impazzire sia l’unica soluzione rimasta.
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Emanuele D’Aniello