Irrational Man, delitto e castigo nella mente di Woody Allen

Sedersi e guardare un film di Woody Allen è un po’ come tornare a casa.

Non solo sai cosa aspettarti, ma sai benissimo come arriverà: si parte con i titoli di testa senza fronzoli, bianchi su sfondo nero con lo stesso font da oltre 40 anni, scintillante musica jazz, e coppia di innamorati con una vistosa differenza d’età. Fino a qui tutto ok.

Poi ti accorgi che però, all’improvviso, sui quegli abituali titoli di testa bianchi su sfondo nero non c’è una musica orecchiabile, ma uno stranissimo silenzio. E allora ripensi che, talvolta, tornare a casa non regala sempre le stesse sensazioni: si può essere felici o triste, rassegnati o arrabbiati, dipende indubbiamente dal posto che si è lasciati. In questo caso, Woody Allen viene da una scia di film, quantomeno nell’ultimo decennio, via via sempre più funerei e pessimisti, assolutamente spietati verso il genere umano. Irrational Man ora non chiude il cerchio, è chiaro che Allen può andare ancora più a fondo nell’introspezione della negatività – la sua grandezza è anche utilizzare un tema abituale e saperlo declinare sempre con angoli e sfaccettature nuove – ma in un certo senso raggiunge il punto massimo del proprio pessimismo. Se anche la solita musica jazz qui lascia spazio ad un unico motivo ripetuto ossessivamente, qualche domanda va fatta.
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Allen è sempre stato un autore fortemente cinico pure nelle sue commedie più brillanti, dopotutto parliamo di qualcuno che scrive e realizza un film anno non per un fervore creativo costante, ma per tenersi attivo e non fermarsi a pensare alla sua notoria paura per la morte, come se scrivendo tentasse di esorcizzare o procrastinare l’inevitabile ogni volta che può. Eppure, negli ultimi anni, il sentimento del finale positivo di Manhattan, denso di speranza e fiducia, è stato definitivamente spazzato via, così come i vari incroci romantici hanno assunto un nuovo significato. Non so se è l’età, o il mondo che lo circonda, o gli ipotetici scandali personali che ogni tanto tornano a galla, eppure Allen è l’unico autore al mondo che ci fa ridere, e parecchio, ricordandoci al tempo stesso che c’è poco per cui ridere.
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Non voglio certo trasformare una semplice recensione in un’analisi filosofica – dopotutto un conto è cogliere e capire il senso tematico di un film, un’altra cosa farlo proprio – ma Irrational Man porta a compimento tutti i discorsi fatti negli ultimi film e li conduce ad un unico comune denominatore: il delitto. Al suo 45° film, il recente percorso del suo cinema ci ha mostrato una totale sfiducia verso le persone e verso il presente (un tema che avvicina Basta che Funzioni e Midnight in Paris) che alcuni provano a superare ricorrendo all’edonismo materiale e di facciata (in parte To Rome with Love e soprattutto Blue Jasmine). Dopotutto, forse una delle più alte forme di edonismo è proprio il delitto. Questo tema ha da sempre affascinato Allen, e se escludiamo le escursioni in chiave parodistica come in Misterioso Omicido a Manhattan, la chiave di lettura è molto vicina a quella di Dostoevskij. La differenza ora è lampante: se prima Allen ha mostrato e utilizzato il delitto come fonte di dubbi religiosi (Crimini e Misfatti), dubbi pratici (Match Point), dubbi etici (Sogni e Delitti), ora non solo tali dubbi non ci sono più, ma la ricerca e la soluzione dell’omicidio è l’unica vera fonte di consapevolezza. Il protagonista di Irrational Man è la somma di tutti personaggi negativi scritti nell’ultimo decennio, più una componente autodistruttiva che non guasta, e trova nel delitto l’unica gioia di vita: non vuole diventare killer, non brama nemmeno la semplicistica adrenalina del creare il delitto perfetto fine a se stesso, semplicemente capisce che uccidere un’altra persona, che diversamente da lui non capisce la vacuità della vita, dà un senso alla propria esistenza. Homo Homini Lupus: l’uomo è intrinsecamente corrotto e cattivo, perché non abbracciare definitivamente con consapevolezza tale visione?
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In tutto ciò, strano a dirsi, Irrational Man rimane una commedia. Non forzatamente divertente – le classiche battute alleniane sono presenti in tono minore – ma ritmata, dinamica, stralunata, godibile, recitata benissimo: Emma Stone pare nata per recitare i dialoghi di Allen, e su un ingrassato Joaquin Phoenix ogni elogio sarebbe pleonastico. Irrational Man fa ridere, perché nonostante i propri temi serissimi, o forse proprio per questi, ci si accorge della disperazione della vita che facilmente sfocia in episodi tragicomici. Dobbiamo ridere per esorcizzare ciò che circonda e ciò che può annidarsi dentro di noi, e ricordare che Allen stesso una sorta di via d’uscita la concede addirittura come premessa nel titolo: per vivere bene più che il pensiero si deve usare la praticità, perché l’essere troppo lucidi e consapevoli è l’anticamera dell’irrazionalità. Sì, è un paradosso, ma non lo è anche la vita stessa?
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Emanuele D’Aniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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