Prima di iniziare una qualche analisi, vorrei fare l’elenco delle cose che si vedono in Il Vizio della Speranza. Anzi, delle disgrazie che si vedono nel film, precisamente. Un inizio schematico, lo ammetto colpevolmente, ma così è più facile capire cosa abbiamo di fronte.
La compilation è la seguente:
- miseria umana e degrado ambientale ad ogni angolo;
- lamiere che fanno da scenografia e spazzatura che fa da pavimento;
- una vita cambiata da uno stupro subito in giovanissima età;
- sfruttamento della prostituzione;
- sfruttamento dell’immigrazione, probabilmente clandestina;
- gravidanze non desiderate, gravidanze che rischiano di sfociare nella morte, compravendita dei bambini appena nati;
- annuncio di malattie terminali, annuncio oltretutto completamente fine a se stesso;
- morte di cani, uno degli elementi narrativi più ruffiani possibili;
- bambine zoppe.
Credo di aver finito, ma forse ne dimentico un paio.
Spero che questo bizzarro mio approccio alla recensione di Il Vizio della Speranza possa rendere l’idea. Non di un brutto film, perché alla fin fine non lo è, onestamente. Ma di un film manipolatore, fortemente insincero, che si crede più profondo di quanto realmente sia. Un film che si nutre delle più basilari disgrazie umane senza mai approfondirle troppo, lasciandole a tassello in un mosaico fatiscente di degrado. Un degrado vero e realistico, questo nessuno lo mette in dubbio, ma fin troppo accentuato e abusato dal film, fino al parossismo emotivo.
Perché l’emotività c’è anche in Il Vizio della Speranza. Ci sono momenti di autentica tenerezza, di autentica umanità perduta. Il problema è che quei momenti non sono seguiti da un crescendo, da un cambio di registro, ma sono sotterrati dal passaggio alla disgrazia successiva. La speranza della storia è quella di uscire dall’orrore che il film mostra, ma tale speranza non è mai accompagnata da una vera costruzione.
Semmai, è una reazione, un semplice opposto all’incubo sulla Terra, non un vero sentimento essenziale per continuare a vivere. Edoardo De Angelis prova a far uscire e trionfare l’umanità dalla sporcizia, ma è più interessato a quest’ultima che non alla prima. Il regista è certamente bravo, come già sapevamo, ma anche molto esagerato. Il suo è un approccio che indulge nelle avversità, si specchia nel dolore, col tocco beffardo di chi pensa di stare a realizzare grande cinema ancora prima di girare.
Di poetico, in realtà c’è ben poco, di manipolatorio per far commuovere tutti, a tutti i costi, c’è moltissimo.
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Emanuele D’Aniello