Il Primo Re, fuori dai confini del cinema italiano

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Ripescando vaghissimi ricordi dell’epoca del liceo classico, posso provare a ipotizzare che Il Primo Re sia un film sulla “Hybris” umana. Quella del suo protagonista, e quella del suo regista.

Che poi, se siamo pignoli o accaniti letterati, “hybris” etimologicamente non è corretto definirla solo come “tracotanza”. Ma quella sfrenata ambizione che diventa arroganza, che può essere inquadrata sia negativamente sia positivamente, è davvero il fulcro di ciò che Il Primo Re ci propone. Un film incarnato sul desiderio di conquistare e creare: se il Remo di Alessandro Borghi quasi impazzisce andando avanti nella storia, Matteo Rovere invece è impazzito già all’inizio ideando un progetto simile. Entrambi sono legati dall’obiettivo di fondare Roma.

Esatto, anche il regista vuole (ri)fondare Roma. La sua è una missione più metaforica, ovviamente, un impulso di scoperchiare il cinema italiano e ricostruirlo dalle sue fondamenta. Prendere Roma è prendere il luogo nel quale, decenni fa, il grande cinema italiano nasceva e prosperava, e ora si prendono le decisioni su quali film realizzare o non realizzare.

L’obiettivo di Rovere, più che girare un film, sembra quella di rivedere il sistema produttivo italiano: Il Primo Re quindi non va inteso al passato, come un ritorno al genere che si girava a Cinecittà oltre 60 anni fa (dopotutto questo è un antepeplum, posto cronologicamente prima dell’ambientazione temporale di quei film), ma visto in avanti, con un occhio al futuro, come prova che scardinare lo status quo del cinema italiano attuale si può, fare film ambiziosi e di genere si può, cambiare le carte in tavola e proporre progetti dal respiro internazionale si può.

Inevitabilmente, l’elemento di Il Primo Re che risalta agli occhi è l’aspetto tecnico e produttivo, ancora prima della semantica o della narrazione.

L’ambiziosa e positiva hybris di Rovere e ciò che permette, ancora prima della sua visione cinematografica, di concepire un progetto simile. Un film che sottrae invece di aumentare, che racconta il mito della fondazione di Roma azzerando l’aspetto mitologico, puntando sul realistico laddove, per tradizione, il realismo non ci è stato tramandato. Un realismo che si riflette sulla messa in scena, sulla costruzione di scenografie e costumi arcaici, sul modo di girare i combattimenti con approccio quasi amatoriale, sulla volontà di riprendere tutto con luce naturale. E, oltretutto, mettendo in bocca ai personaggi una lingua a noi incomprensibile.

La scelta del latino arcaico non è solo una decisione di testarda aderenza al realismo. È una decisione fondamentale per creare un’atmosfera ostile. La durezza della lingua si riflette nella durezza di ciò che vediamo. La chiusura dei personaggi nei rapporti e nelle scelte è la chiusura degli spettatori nel non capire ciò che fanno.

Pertanto, come già detto, quella di Rovere è un’operazione ancora prima di essere un film. Una scommessa già vinta in partenza col solo risultato di essere riuscito a concretizzarla. Un’idea che propone un qualcosa di diverso nel nostro cinema, ribaltando anche le aspettative di un pubblico assuefatto a vedere sempre i soliti film. E soprattutto mostra che quasi ogni idea, per quanto azzardata, si può fare. Un film che, da qualsiasi prospettiva lo si voglia approcciare, va innegabilmente difeso e forse addirittura esaltato come testa d’ariete per cambiare il nostro cinema.

Eppure, al tempo stesso, il coraggio produttivo e l’ambizione visionaria di Rovere non deve diventare una giustificazione. Perché Il Primo Re è sicuramente una scommessa vinta sul piano dell’operazione, ma come film la somma degli addendi che lo compongono non dà il medesimo risultato.

Forse troppo impegnato nella sfida della realizzazione tecnica, Rovere ha troppo sottovaluto la scrittura e l’aspetto emotivo della sua storia. La sua è una continua tensione frustrata tra le ovvie spinte autoriali e le necessità di genere. Se con le prime ritroviamo la voglia di un film intimista, d’atmosfera, che punta sui gesti più che sui fatti, col secondo arriva l’azione che pare uscire da un altro film e la semplificazione che renda la visione accessibile a tutti. Trionfa il compromesso che, in realtà, scontenta tutti. Azzera l’epica, la sua cornice naturale, e azzera l’indagine del divino, che pare fondamentale ma non lo è mai veramente. In sostanza, perde per strada l’anima del film.

Così a mancare, soprattutto, è un puro contatto emozionale, di empatia. Una storia interamente costruita sulla simbiosi tra due fratelli perde pian piano quel rapporto per la folle scelta narrativa di “addormentare” il personaggio di Romolo per oltre metà film. Romolo è un non personaggio, l’interazione con Remo si esaurisce subito e, pertanto, anche l’arco narrativo di quest’ultimo, che improvvisamente diventa un canonico villain, è molto forzato.

Più la storia va avanti, più emotivamente il seminato è pochissimo. I personaggi rimangono tutti sulla carta. Lo scontro finale tra Romolo e Remo non ha alcun peso emotivo, né sul piano personale né su quello ideologico. Lo scontro tra due modi di vedere, pensare e costruire non è superficiale. Tutto arriva veloce e indolore.

Alla fine, Il Primo Re punta, volontariamente o involontariamente, più sulla forma che sulla sostanza.

Per tutte le tante premesse fatte all’inizio non è necessariamente un difetto, ribadendo cosa rappresenta all’interno della nostra industria cinematografica. Ma, al tempo stesso, è purtroppo anche deludente, c’è da ammetterlo senza remore.

Non scalfisce quanto di buono fatto, ma lascia l’amaro in bocca. Un film dalla partenza roboante che perde ritmo e si spegne da solo, forse sotto il peso della propria ambizione. Forse anche sotto il peso delle citazioni, che da pure ispirazioni (come l’ossessione onnipotente di Herzog o l’animalità di Gibson) diventano cedimenti estetici palesi (il look di Revenant da visivo si trasferisce anche nei costumi o nei volti dei personaggi).

Fare l’esegesi si cosa sia veramente Il Primo Re è complicato, sciogliere la tensione tra operazione cinematografica e film per tutti non è facile. Va applaudito, va difeso, e al tempo stesso criticato perché poteva addirittura fare di più. Soddisfa lo spettatore e fa desiderare anche qualcosa di più.

Ma forse, paradossalmente, anche farci parlare così tanto e mandarci in contraddizione così fortemente è una vittoria di Matteo Rovere.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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