Se un ponte deve esserci, è quello che collega i due mondi del cinema di Steven Spielberg: da un lato abbiamo il cinema avventuroso e dinamico di grande intrattenimento, ricco di umanità e grande ottimismo, nell’altra sponda invece troviamo il rigoroso cinema classico di grande impegno storico e civile. Il Ponte delle Spie prova a collegare e mostrare entrambi i mondi – ovviamente senza l’elemento della fantasia, essendo una storia vera – ma riesce nel suo intento solo a metà.
Siamo vicini al Natale, quindi siamo tutti più buoni e voglio partire subito con le cose positive: Il Ponte delle Spie pare un film fuori tempo massimo e invece è una storia assolutamente attuale e senza confini temporali. La Guerra Fredda, le spie, le dinamiche di due superpotenze che invece di scontrarsi giocano una partita a scacchi sul piano geopolitico, tutto è cadenzato come uno specchio sulle ripercussioni nel mondo moderno grazie tocco umanissimo e morale del cinema di Spielberg. Un film solido, classico senza essere vecchio, semplice senza essere noioso, retorico ma sincero e pieno di buone intenzioni, Il Ponte delle Spie è il tipico prodotto che difficilmente può non piacere, e con efficacia porta a casa il risultato.
Semmai, il problema è nella scollatura della narrazione: quello che all’inizio sembra un interessante procedurale sul dilemma morale del ruolo tra buoni e cattivi, si trasforma via via in una classica storia spionaggio hitchcockiana (l’uomo comune che finisce in una situazione straordinaria) calata nello scenario dei romanzi di John leCarrè, e finisce per essere l’ennesima parabola biografica dell’eroismo americano contro tutto e tutti.
Le parti come detto non sono ben amalgamate, o quantomeno sono solo un preambolo per il grande messaggio morale. Un messaggio assolutamente giusto e come detto senza tempo, per carità, ma molto più efficace nella prima parte: quando l’avvocato Donovan difende una spia russa perchè tutti hanno diritto ad una difesa e al principio di innocenza fino a prova contraria, non può non venire in mente quanto successo recentemente a Guantamano o Abu Ghraib, oppure alla facilità con cui ultimamente si generalizza di fronte ad alcuni individui sulla base della provenienza geografica. Giusto sottolineare, inoltre, che questa parte funziona anche grazie alla compostissima ed enigmatica interpretazione di Mark Rylance, grande attore teatrale inglese qui alla prima vera esposizione cinematografica in carriera. Quando poi il film, come anticipato, prende i chiari binari della storia di spionaggio, paradossalmente la tensione che dovrebbe salire invece precipita, perché il dilemma morale si esaurisce e l’esito è piuttosto ovvio (non credo sia un caso che lo stesso Tom Hanks, per quanto calatissimo nella parte, reciti davvero senza guizzi).
Il Ponte delle Spie è un film che introduce perfettamente i toni grigi della storia, ma quando decide di virare sul bianco e sul nero si appiattisce su se stesso. Alla fine è una vicenda che giustamente devono conoscere tutti e trarne il massimo esempio, perchè l’avvocato Donovan è davvero un simbolo di rettitudine morale, ma non riesce a raggiungere il dinamismo necessario per farne una vera opera cinematografica.
Emanuele D’Aniello