Il Figlio di Saul, dentro l’Inferno della Shoah

Al giorno d’oggi, una delle cose più difficile da fare al cinema è un film sull’Olocausto, quasi diventato un genere a sé stante.

Buona parte del pubblico di fronte a questi film esclama “Basta!” e poi trovare un modo di farli originali, che non sia la solita esplorazione del dolore, è complicato. Col film Il Figlio di Saul il primo ad essere consapevole di tali problemi è proprio il regista Laszlo Nemes, che però ha dalla sua l’audacia e la freschezza del debuttante per girare un film ambientato nei campi di sterminio come mai nessuno aveva fatto prima.
Il Figlio di Saul, senza mezzi termini, è un thriller in piena regola: dicendo questo non vi aspettate certo sparatorie o inseguimenti, ma il thriller puro, nel senso etimologico del termine, quello che ti rapisce e non abbassa un solo secondo la tensione. Già questa è una visione originale, ma Nemes oltretutto sceglie di girare con la macchina da presa sempre fissa sul proprio protagonista, ripreso in primo piano di faccia o di nuca, e col formato dei 4:3, un formato che in pratica ci blocca su quel volto, lasciando sullo sfondo tutto il resto.
Capiamo che Nemes stesso è stato il primo a capire quanto sia impossibile raccontare un avvenimento di tale portata come l’Olocausto, che tracima dai confini morali di ogni essere umano. Raccontare l’orrore, anzi, quell’orrore non è possibile nemmeno per le immagini cinematografiche, perché non si può comprendere e non si può rappresentare, e si rischia sempre di innaffiare il tutto con una retorica esplorazione del dolore. Pienamente consapevole di ciò, Nemes sceglie di non raccontare, ma immergere il proprio film nel medesimo orrore, lasciandoci correre dentro un vero Inferno – e non un incubo, perché è tutto terribilmente reale – che ha abbandonato ogni forma di vita umana. Il film corre, non si ferma mai, perchè l’unico modo per rimanere vivi dentro quell’orrore non è provare a sopravvivere, ma quantomeno mantenere una scintilla di istinto di sopravvivenza, seppur inutile. Il protagonista Saul nell’urgenza della propria missione, nella necessità di compiere un gesto non cerca la speranza, quella ormai non c’è da un pezzo, ma semplicemente un ultimo attimo di moralità che lo possa riportare ad una dimensione umana, un aspetto che nessuno dei personaggi sa più cosa sia. Saul cerca di dare degna sepoltura ad un ragazzino, e non importa che sia suo figlio o no, ciò che conta è tornare ad essere umani.
Non è il momento del dibattito se Il Figlio di Saul sia o no il miglior film mai realizzato sul tema, ma sicuramente è una visione che mai nessuno prima aveva affrontato, il film più feroce e realista, che spinge i limiti stessi della comprensione dell’evento. La scelta claustrofobica dei 4:3 incentrati sul volto del protagonista è quasi l’ammissione di Nemes dell’impossibilità di inserire nella storia, e quindi nello schermo, tutto l’orrore di quei giorni, ma al tempo stesso anche la più forte presa di posizione cinematografica sulla necessità di non dimenticare: molti vorrebbero ancora oggi sottovalutare o non pensare a quanto accaduto, un po’ come coloro che seduti in poltrona in sala pensano di vedere solo il volto di Saul, ma in realtà sullo sfondo ci sono i veri orrori, i corpi nudi senza vita, i forni accesi, la cenere e gli oggetti materiali, le urla e le lacrime. E’ tutto lì presente, sullo sfondo, e girare gli occhi è la cosa peggiore che si possa fare.
 
Emanuele D’Aniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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