Fino all’Osso, uno sguardo onesto su un terribile problema

Fino all'Osso

Non è sicuramente facile realizzare, con delicatezza ma anche onestà, un film sull’anoressia.

Per una quantità infinita di motivi i rischi di fallimento sono dietro l’angolo. Fino all’Osso, il nuovo film di Netflix da vedere per tutti i suoi abbonati dal 14 luglio, parte però da un punto cardine fondamentale: la conoscenza, la testimonianza, la consapevolezza.

La regista e sceneggiatrice Marti Noxon ha vissuto, seppur con molte differenze, l’esperienza ora raccontata. Non possiamo definirlo un film autobiografico, ma nemmeno a questo punto una storia di fiction al 100%. E la protagonista Lily Collins ha avuto in giovane età, prima di conoscere la ribalta, vari disturbi alimentare, che non sono mai sfociati nella piena anoressia, ma sicuramente hanno lasciato ferite emotive e ricordi segnanti.

Non è un caso qui che il maggior pregio di Fino All’Osso sia quello di evitare ogni aspetto idealizzato della problematica.

Il film mostra l’anoressia per ciò che è e soprattutto per gli effetti quotidiani, parlando solo di negatività. La simpatia, semmai, nasce grazie alla prova di Lily Collins. L’attrice è credibilissima e bravissima nel ritrarre una giovane donna che si scava da sola la propria fossa. Il suo volto così cinematografico è accompagnato da una performance di enorme sensibilità, che lascia percepire allo spettatore il disorientamento interiore del divenire fantasma senza quasi volerlo.

Fino all’Osso non è comunque esente da difetti, anzi. Ha una sceneggiatura molto semplice, e quando potrebbe affondare il colpo cerca sempre una via di fuga. Può essere una scelta ponderata quella di non straziare eccessivamente lo spettatore, vedendo quanto sia potente il tema centrale a prescindere da ogni trattazione. Ma la via di fuga è quella semplicistica della storia d’amore giovanile, che a tratti fa assomigliare troppo il film al genere young adult, perdendo di vista la tematica della malattia.

Rimane comunque, al netto dei difetti, un film da vedere. Per la sua sincerità, per l’emotività delicata, e per l’importanza che può avere verso giovani affetti da questo problema. Non lesina colpi alla disfunzione della famiglia come istituzione, ma intelligentemente non è a caccia di colpevoli o di bersagli verso cui lamentarsi e gettare fango. Il problema è interiore, e prima è riconosciuto, prima si può ricominciare a vivere.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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