Mettiamo subito le cose in chiaro. Chi cerca intenti di ricostruzione di cronaca fedele, ha sbagliato film. Chi cerca uno sguardo pulp sulle efferatezze di quell’episodio reale, ha sbagliato film. E pure chi cerca una presa di posizione retorica ha palesemente sbagliato film.
Matteo Garrone non è quel tipo di regista, non ha mai avuto tali finalità, e Dogman lo conferma. Parte da un truculento caso di cronaca ormai quasi dimenticato, quello del cosiddetto “canaro della Magliana“. Poi però, pur rimanendo saldo nell’ispirazione, Dogman segue il proprio DNA, quello di Garrone appunto.
E così, plasmato con la lezione neorealista tanto cara al regista romano, filtrato attraverso la predilezione di crime sociale che lo ha imposto alla ribalta, il Dogman di Garrone è una nuova profonda e oscura indagine nell’Inferno delle periferie geografiche e umane. Che siano le vele di Scampia, oppure un quartiere dimenticato da Dio, poco importa: fondamentale è sempre l’ambiente.
Il protagonista di Dogman non è un uomo cattivo, anzi tutt’altro, ma è completamente condizionato dall’ambiente in cui si trova. Più che per la professione da “canaro”, la sua vicinanza al mondo dei cani è dovuta ad una caratteristica ben precisa: l’appartenenza al branco. Anche per una debolezza di carattere e una evidente fragilità sia interiore sia esteriore, per lui è vitale la riconoscenza degli altri, essere amico di qualcuno, appartenerne letteralmente ad un gruppo. Non essere mai solo, in sostanza.
Quella di Dogman è una parabola su quanto il microcosmo che ci circonda possa condizionarci, cambiarci. Un uomo per quanto buono messo in un contesto cattivo si trasforma, inevitabilmente.
Garrone non fa prigionieri nel raccontarlo, assolutamente. Ha indubbiamente somiglianze con suoi precedenti film, ma Dogman è davvero il lavoro più cupo del regista. Una storia senza speranza, con barlumi di luce sfocatissimi, in cui persino la minuscola concessione al sogno è amarissima, e figlia di un desiderio crudele. Non c’è redenzione, sarebbe quasi irrealistico. Dalla fotografia nebbiosa, alla scenografia senza vie di fuga, tutto in Dogman è creato per trasmettere disagio.
Quel disagio che è tutto contenuto nel primo piano finale del superlativo Marcello Fonte. L’ansia, la vera tensione umana che il film ha costruito, tutto conduce a quello sguardo. Non c’è solo il vuoto della speranza, l’abisso autentico della consapevolezza del dolore, ma soprattutto il punto d’incontro tra degrado urbano, degrado sociale, degrado personale. Garrone, con una storia tutto sommato semplice, tutto sommato strutturata ancor più semplicemente, scava senza sosta nello squallore della desolazione umana che diventa violenza e ne genera altra ancora. Non c’è bisogno di violenza esteriore, quella sanguinolenta, quella che avrebbe illuso con una catarsi fasulla, quando c’è tutta quella interiore: Dogman ci immerge nella pura e ineffabile bruttezza.
Con un casting perfetto, con quei volti e quelle interpretazioni che da sole reggono tutto, con quella sapienza registica e tematica che ha pochi eguali, possiamo allora perdonane qualche prolissa sottolineatura nella seconda parte. Dopotutto il film ha già efficacemente reso l’idea fin dall’inizio. Fin dalla prima inquadratura, fin dal ringhio feroce di un pitbull che fa da sottofondo al sorriso e alle parole confortevoli di un uomo indifeso. Indovinate un po’, alla fine di tutto, cosa rimarrà?
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Emanuele D’Aniello
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