Death Note è l’ennesima manga, e poi anime, finito nel frullatore dell’adattamento filmico americano.
Quest’anno nel genere abbiamo già avuto Ghost in the Shell, e ricordiamo tutti che non è proprio finita benissimo. Death Note avrà una giuria ancora più feroce: essendo il nuovo film Netflix da vedere, saltando l’uscita ai cinema, il pubblico che lo andrà a cercare online sarà quello selezionato dei fans della materia originale, quindi pronto ad essere iper-critico su ogni dettaglio oltre misura.
Non bisogna comunque essere eccessivamente fanatici o esperti del manga per vedere che il film non rimane esente da critiche.
La storia di un ragazzo che trova un libro nel quale può scrivere il nome di una persona, e quella morirà secondo le condizioni scritte grazie all’intervento di un demone, è chiaramente bizzarra quanto enormemente interessante. La prima parte del film, totalmente incentrata su tale premessa, è efficace nel creare il tono e soprattutto la narrazione. Ovvero, quella di un ragazzo che improvvisamente si trova ad essere un Dio. Non servono sottolineature per capire il fascino dell’idea, e come essa abbia ramificazioni decisive a sviluppare la personalità del protagonista.
Death Note gioca infatti, con umorismo grottesco mai fuori posto, con la parte buia della nostra anima. Chiedendo di trovarci al posto del protagonista, tutti noi sfidiamo per un attimo la morale e le possibilità umane.
Il film però, forse per la difficoltà intrinseca di sviluppare in due ore un materiale originale vastissimo, spreca quasi subito tale premessa.
Death Note, se proprio vogliamo stringere, alla fine si presenta come un noir adolescenziale graffiato da elementi fantasy. Non ho sinceramente idea se anche il manga e l’anime fossero così, ma poco importa, nel film funziona meno di quanto sembri. Qui rientra il classico errore di tanti adattamenti recenti: sacrificare il tema centrale in nome della trama. Più che sviluppare un’idea coerente, tanti adattamenti decidono di accelerare lo narrazione per far entrare in un film più trama, più storie, più capovolgimenti di fronte possibili. Tutto ciò che in Death Note funziona nella prima parte, il dubbio amletico su come comportarsi di fronte ad un potere così enorme, è quasi dimenticato nella seconda metà, la quale si presenta come il più classico dei thriller, con l’abusatissimo schema del detective che rincorre la propria preda.
Così facendo, Death Note non va mai a spiegare o quantomeno sfruttare la grande mole di regole introdotte all’inizio. Tira solamente fuori le contraddizioni quando servono a fini di trama, banalizzando l’elemento fantasy che rendeva unica la storia.
Sicuramente il regista Adam Wingard ha la giusta visione dark per dare vita al mondo nato nel manga. Sicuramente il cast convince e funziona, specialmente Willem Dafoe che dà voce al demone Ryuk. Ma non basta a dare dignità e unicità ad un’opera che rischia di scontentare non pochi spettatori. Da un lato i fans originali, sempre affamati di fedeltà assoluta, dall’altro il pubblico casuale, a cui sembrerà l’ennesimo fantasy adolescenziale. Fortunatamente l’acquisto della pellicola da parte di Netflix eviterà il costo del biglietto, ma tale pregio a parte si può dire che continua la maledizione degli adattamenti orientali nel meccanismo americano.
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Emanuele D’Aniello