C’era una volta a Hollywood, la fiaba di Quentin Tarantino

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C’era una volta Quentin Tarantino, possiamo anche iniziare così.

Perché il suo C’era una volta a Hollywood è, quasi letteralmente, una fiaba, che però solo lui poteva realizzare in tal modo. E che solo il Tarantino del 2019, a quasi 60 anni, poteva concepire e realizzare così.

In fondo tutti maturano e un po’ cambiano, anche chi ha una visione ben precisa, netta e dogmatica su alcune cose. Tarantino ha travolto il cinema negli anni ’90, ha iniziato a fare film come nessuno aveva mai osato, ha concepito il cinema in maniera quasi avanguardistica, avanti forse venti anni rispetto ai colleghi, e aizzava se stesso e le sue opere con spirito ribelle anticonformista.

Poi, quando quella rivoluzione indipendente lo ha raggiunto, quando il suo stile è diventato un sottogenere, quando hanno iniziato a fioccare gli epigoni e le imitazioni, Tarantino ha riavvolto il nastro: non ha cambiato minimamente stile, ma ha iniziato a guardarsi indietro, ad ambientare film solo nel passato, a diventare più nostalgico e persino più conservatore su taluni aspetti, uno degli ultimissimi crociati a lottare per un’idea di cinema più pura, a partire dalla diatriba (già persa in partenza) tra digitale e pellicola.

Tarantino un tempo andava avanti in maniera frenetica. Adesso va indietro in modo malinconico ma maturo.

A tal proposito, C’era una volta a Hollywood non può che esser visto e letto come la summa perfetta della sua evoluzione. Una fiaba, una lettera d’amore ad un cinema che non esiste più, una elegiaca riflessione sui tempi che cambiano.

Un atto d’amore nel quale le citazioni (e persino autocitazioni) non sono orpelli, ma tasselli di un mosaico che mostra come e quanto il cinema influenzi le vite di chi lo fa. O di chi, semplicemente, lo ama.

Da un lato immagino quanto questo possa quasi essere traumatico per un fan, poiché indubbiamente è il suo film meno tarantiniano. La violenza è quasi assente, la frenesia è completamente assente, il ritmo e il solito tumulto dei dialoghi lasciano spazio a scene lunghe spesso mute, spesso accompagnate solo dalla musica (mai invadente, mai rumorosa) o dallo sguardo dei protagonisti. È il suo primo film che non è necessariamente cool, non vuole esserlo a tutti i costi. È il suo primo film nel quale contano i piccoli momenti, i piccoli gesti quotidiani, il fulcro è tutto sulle emozioni.

Forse perché C’era una volta a Hollywood è il primo film nel quale Tarantino usa personaggi veri. E non intendo solo personaggi realmente esistiti, ma parlo di personaggi reali nelle loro emozioni, crisi e desideri. Non ci sono spose imbrattate di sangue che maneggiano spade, cacciatori di nazisti che fanno scalpi, gangster che partecipano a gare di ballo. Tarantino ci mostra esseri umani in piena crisi esistenziale alla ricerca di un posto nel mondo. Per una volta, in un suo film ci siamo noi.

Forse manca una bussola, ma come non era un problema in Pulp Fiction, non è un difetto nemmeno qui. È lo sguardo d’insieme che conta, il tono amorevole e nostalgico col quale Tarantino incornicia i personaggi e come vivono. Nella parte centrale c’è il cuore dell’idea: un attore decaduto che cerca di recuperare la fama, messo in contrasto con un’attrice all’apice della fama che però non potrà più andare avanti, omaggiata cristallizzando per sempre la sua immagine sul grande schermo.

Una Sharon Tate di fantasia che guarda felice la vera Sharon Tate immaginando un futuro che non c’è mai stato. Questa è forse una delle scene più commoventi mai scritte dal regista.

Per questo C’era una volta Hollywood è il film meno tarantiniano di sempre ma, al tempo stesso, il suo più ideale e perfetto per comprendere lui e il suo mondo. Lui che parla da anni di ritirarsi dopo dieci film (siamo a nove) e proprio adesso, guarda caso, racconta la paura dell’irrilevanza.

Irrilevante però non lo è mai. Lo spirito ribelle del passato è diventato, paradossalmente e incredibilmente, puro anacronismo cinematografico. Ma è un anacronismo sempre sulla cresta dell’onda, perché nessuno come lui sa catturare l’attenzione di occhi e orecchie dello spettatore. Nessuno sa scrivere personaggi così bene. Nessuno sa stracciare ogni regola narrativa e ideologica con tale sicurezza. E se C’era una Volta a Hollywood è la negazione del tipo d’intrattenimento che ci ha insegnato negli ultimi venti anni, la follia del finale del film funziona proprio perché non è un lusso che si concede, ma una magia che si è guadagnato.

La magia è la parola chiave, quella magia del cinema che Tarantino ama e da sempre vuol far tornare. La magia di piegare la storia a suo piacimento, la magia di ricreare intere sequenze di film e serie tv del passato. E perché no, la magia di prendere due star assolute recenti, per la prima volta, e ricreare con loro l’immagine di Paul Newman e Robert Redford. Quella magia così tenace e pura da diventare insolenza, e Tarantino se la può permettere.

Solo con l’insolenza, oltre che col talento, può realizzare il suo primo film con personaggi reali e problemi reali nel contesto più magico, fantasioso, elegiaco e sentimentale possibile. Una fiaba vera e propria, quasi da struttura classica, nella quale i cavalieri devono imparare la fiducia in loro stessi per combattere il drago e provare a salvare la bionda principessa. Solo allora le porte del castello potranno aprirsi.

Delle porte del cinema, invece, sono piuttosto sicuro Quentin Tarantino possegga davvero tutte le chiavi possibili immaginabili.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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