Beautiful Boy, la dipendenza al dolore

Beautiful Boy

Tante volte mi sono trovato ad elogiare film semplici, quelli che non vogliono strafare, quelli che senza esagerare si accontentato della propria natura. Vivo quindi ora il paradosso di dire che il difetto maggiore e principale di Beautiful Boy sia proprio quello di essere un film sufficiente.

Non un brutto film, non lo è minimamente. Un film godibile semmai, seppur incentrato su una storia drammatica. Ben realizzato, ben girato, ben pensato senza scadere nei momenti più faciloni sempre dietro l’angolo in queste storie melodrammatiche. Ottimamente interpretato, e ci mancherebbe quando hai l’astro nascente Timothée Chamalet e la fase matura di Steve Carell. Però, Beautiful Boy non è nemmeno un bel film: dispersivo e ripetitivo, allungato oltre una naturale conclusione e soprattutto indeciso su quale storia seguire.

Parte da ben due romanzi Beautiful Boy, cosa rara. Parte dal romanzo di Nic Sheff, il ragazzo che ha raccontato la sua odissea personale tra le droghe, e da quello di suo padre David, che ha ricordato le peripezie per provare a salvare il figlio. Non è facile adattare un romanzo al cinema, figuriamoci adesso due due insieme. Anche tale scelta dimostra la poca chiarezza di fondo: cosa è Beautiful Boy? Il racconto di una storia tra padre e figlio distrutta dai problemi? O un grande spot contro la droga?

Alla fine è sia il primo sia il secondo ma, appunto, non li esplora a sufficienza.

Nella sua costruzione a flashbacks, con una struttura che sfrutta i salti temporali, Beautiful Boy spesso si perde nel suo politicamente corretto. Nella sua perfezione esteriore che poco affronta l’interiore. Non perché non commuova, saremmo di ghiaccio se non patissimo le sofferenze di questa famiglia. Ma perché non cercando mai di voler capire i gesti del figlio, o l’ostinazione del padre, e mostrando la dipendenza in una maniera stranamente pulita – Chalamet nella fisicità non sembra mai una persona distrutta dall’eroina e della metanfetamina che, come ripetono più volte nel film, “ha tutte le droghe in circolo nel corpo” – il film rimane sempre un po’ distaccato. C’è tenerezza umana, c’è il dolore del ricordo, ma rimaniamo sempre a guardare ciò piuttosto distanti.

Non scopre certo l’acqua calda nel raccontare storie simili. Non è il film che può far capire quanto la droga faccia male, si sa già. Dovrebbe pertanto curare di più le angolature emotive, che invece abbandona alla bravura degli interpreti, non a una scrittura all’altezza.

Per usare un banale adagio, c’è in giro peggio di Beatufiul Boy, ma anche di meglio.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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